Oscar solo se ci sono minoranze nel film: più che inclusione un colpo basso alla libertà

L’Academy di Hollywood rivoluziona le regole: dal 2024 niente premi se mancano gruppi oggi sottorappresentati. Il pericolo che l’etica spenga l’arte è concreto

Oscar solo se ci sono minoranze nel film: più che inclusione un colpo basso alla libertà
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11 Settembre 2020 - 13.16


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di Giuseppe Costigliola

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L’Academy di Hollywood, il pletorico organismo che gestisce e assegna i premi Oscar, ha comunicato una decisione che si annuncia come un’autentica rivoluzione. A partire dal 2024, per essere candidabili alla categoria più ambita, Miglior film, i lungometraggi dovranno rispettare determinati “criteri d’inclusione”. Sul sito ufficiale dell’Academy il presidente David Rubin e l’amministratore delegato Dawn Hudson motivano così la scelta: “Quest’apertura intende riflettere la varietà della popolazione globale, sia nella produzione delle pellicole sia nel modo in cui il pubblico si rapporta con esse. L’Academy si impegna a giocare un ruolo fondamentale per realizzare tutto questo. Riteniamo che tali criteri di inclusione saranno un catalizzatore per un cambiamento sostanziale e duraturo del nostro settore”.
In pratica, la decisione intende favorire l’inclusione di gruppi sottorappresentati a Hollywood, certosinamente elencati: donne, nero/afroamericani, ispanici/latinx, asiatici, indigeni/nativi americani/nativi dell’Alaska, mediorentali/nordafricani, nativi hawayani o isolani del Pacifico, qualsiasi altra etnia sottorappresentata, appartenenti alla comunità LGBTQ, persone con disabilità fisiche o cognitive, non udenti o con problemi all’udito.

I criteri sono piuttosto stringenti, e investono ogni ambito cinematografico, dall’artistico, al produttivo, al distributivo. Nello specifico, la trama del film deve concentrarsi su uno dei gruppi sottorappresentati (donne, gruppo razziale o etnico, LGBTQ, persone con disabilità fisiche o cognitive, non udenti o con problemi all’udito), almeno uno degli attori principali deve provenire da un gruppo etnico sottorappresentato, almeno il 30% degli attori secondari o con altri ruoli minori deve provenire da almeno due dei gruppi sottorappresentati. Gli stessi criteri si applicano per le posizioni creative (regista, direttore del casting, direttore della fotografia, compositore, costumista, montatore, parrucchiere, truccatore, produttore, scenografo, tecnico del suono, tecnico degli effetti speciali, sceneggiatore), per la produzione (membri della crew o del personale tecnico come aiuto regista, tecnico delle luci, supervisore del copione, e così via), per la postproduzione e per la distribuzione (il distributore del film o la società finanziaria dovranno aver pagato apprendistati o tirocini a persone appartenenti ai gruppi sottorappresentati). Inoltre, lo studio o la compagnia del film dovrà avere dirigenti interni tra i gruppi sottorappresentati per quanto riguarda il marketing, la pubblicità e, come detto, per la distribuzione.
La decisione dell’Academy era allo studio da tempo, come reazione alle roventi polemiche sollevate cinque anni fa dal movimento Oscar So White, ovvero gli Oscar sono troppo bianchi, che criticò la carenza di attori neri o comunque di altre etnie candidati alla statuetta. Evidentemente, anche il poderoso movimento di massa sollevato dal Black Lives Matter ha spinto verso il radicale cambiamento delle regole di assegnazione degli Oscar.

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Com’era immaginabile, la decisione ha suscitato apprezzamenti ma anche aspre polemiche. Con un tweet, Kirstie Alley ha definito la decisione “orwelliana” e “una disgrazia per gli artisti di tutto il mondo”. Il problema era già stato sollevato l’anno scorso da Scarlett Johansson, che in un’intervista rilasciata al magazine As If rilasciò dichiarazioni molto dure contro la dittatura del politically correct, sottolineando l’importanza della libertà dell’arte. Nel 2018 la Johansson era stata scritturata per il film Rub & Tug ma fu costretta a lasciare il ruolo del boss transessuale Dante Tex Gill. Aveva poi ricevuto pesanti critiche dopo aver recitato in Ghost in the Shell, adattamento dell’omonimo anime giapponese in cui, secondo i difensori del politicamente corretto, avrebbe usurpato il ruolo ad una protagonista asiatica. Lei si era difesa ribaltando le accuse: “Credo che la società sarebbe più unita se permettessimo a ciascun individuo di avere i propri sentimenti, senza aspettarci che tutti si sentano così come noi ci sentiamo”. Nell’intervista citata aveva poi messo il dito sulla piaga: “Il politicamente corretto è un trend nel mio ambiente e in qualche modo ha ragione d’essere, per vari motivi. Ma ci sono momenti in cui questa tendenza ha un impatto sull’arte suscitando disagio e io credo che l’arte debba essere libera”.

Intervistato sulle nuove regole imposte dall’Academy, Pupi Avati non è stato meno caustico, come riporta Quotidiano.net: “Che devo dire? Mi sembra un’idea folle, quella dei signori dell’Academy”. Il regista ritiene il nuovo regolamento “a dir poco imbarazzante” e ha rimarcato come l’emergenza Covid abbia già creato “ostacoli enormi alla creatività”, ed è convinto che queste regole peggioreranno ulteriormente la situazione: “Creeranno un cinema peggiore. La creatività è libertà. Questi schematismi sono la morte della creatività”. È convinto che gli artisti si vedranno costretti a scegliere mezzi diversi dal cinema per esprimersi, quindi ha concluso: “Già si sente un’aria di ‘politicamente corretto’ pesante in tv: in ogni serie capisci che ci sono personaggi per ‘accontentare tutti’. [..] Adesso si va davvero nel paradosso. E per prime, dovrebbero ribellarsi contro queste ‘quote’ le minoranze che si pretende di difendere. Se una storia prevede, organicamente, personaggi di colore, di orientamenti sessuali diversi, benissimo: ma metterceli per forza mi sembra assurdo. Se io giro un film in Islanda ci devo mettere un nativo americano, o un personaggio di colore? Così il cinema si autodistrugge”.
Sono in molti, tra i creativi, a ritenere fondato il pericolo che la scelta dell’Academy si traduca nella premiazione di chi include di più, anziché del più talentuoso: cioè, che il politicamente corretto finisca per soffocare le istanze artistiche. Una decisione, insomma, che con la sua imposizione preventiva rischia di anestetizzare le differenze, nell’ottica di trasformare ogni strato sociale in minoranza da difendere.

A giudicare dalla fiction televisiva, dove l’impatto del politicamente corretto è già fortemente operante, sembra un pericolo concreto: anche le serie più celebrate, dal punto di vista creativo sono una melassa indigesta, un polpettone indifferenziato, prevedibili nell’assegnazione dei ruoli, nelle trame, negli sviluppi emotivi dei personaggi, nelle aspettative dello spettatore. Di creatività artistica ve n’è davvero poca, se non nell’uso della computer grafica e dell’intelligenza artificiale.
Quella cinematografica è un’arte complessa. Si realizza grazie all’armonizzazione di un’incredibile varietà di persone, di compiti e mezzi, coordinati da una figura che si fa carico di guidare una poderosa macchina, spesso bizzosa. Imporre al regista e alla produzione delle scelte preventive, oltre alle imprescindibili problematiche del budget, regolamentare con stringenti criteri la sfera della creatività sua e degli sceneggiatori, può delimitare gli spazi di ricerca creativa, la capacità e la voglia di osare, sfidare consuetudini, luoghi comuni, trend culturali. Il pericolo che alla lunga l’etica spenga l’arte, ambigua e a-morale per sua definizione, forse sussiste davvero.

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