Con Elisabetta Sgarbi 'Extraliscio- punk da balera' va a Venezia: «Ghezzi il mio riferimento nel cinema»

Come regista porta alla Mostra del cinema un film su un gruppo romagnolo. Ci parla anche del film su suo padre che girerà Pupi Avati e, da editrice, di un libro di una donna stuprata per la Nave di Teseo

Con Elisabetta Sgarbi 'Extraliscio- punk da balera' va a Venezia: «Ghezzi il mio riferimento nel cinema»
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22 Agosto 2020 - 12.37


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di Chiara Zanini

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Elisabetta Sgarbi sarà alle Giornate degli Autori della Mostra del cinema di Venezia con il film Si ballerà finché entra la luce dell’alba – Extraliscio Punk da balera, con Mirco Mariani, Moreno Conficconi e Mauro Carlini e in calendario per il pubblico il 10 settembre. Regista ed editrice, è fondatrice e direttrice editoriale de La Nave di Teseo, presidente della casa editrice Baldini&Castoldi, creatrice e curatrice della rassegna La Milanesiana.

Il suo film racconta la storia di un gruppo, gli Extraliscio, inserito nella tradizione delle balere.
Punk da balera è una espressione di Mirco Mariani, uno dei tre componenti originari degli Extraliscio, quello che non viene dal mondo del liscio, che lo scardina. Negli Extraliscio secondo me è più forte il punk, la balera è una memoria che sopravvive nel loro senso di libertà, di generosità, di dedizione al pubblico. Il film inizia con una battuta che abbiamo scritto, non vera, ma che dà il senso di quello che per me sono gli Extraliscio: il gruppo sta facendo un’audizione improbabile, in un set magnifico, sul Delta del Po, davanti a un manager e un discografico molto scettici (impersonati dai due veri manager Franz Cattini e Mario Andreose, entrambi dallo sguardo naturalmente severo e fulminante), che si congedano da loro molto perplessi. Il manager Cattini, chiama al telefono e dice: «È un gruppo romagnolo. Si chiama Extraliscio. Sì, Extra-liscio. No, in Romagna non li vuole nessuno». Ecco, non è vero che in Romagna non li vuole nessuno, ma è vero che fa parte di Extraliscio una certa iconoclastia. Sono dei parricidi: loro la tradizione la conoscono e la amano, quindi la capovolgono. Ripeto, seguono la musica, e la musica va dove vuole, spesso anche controcorrente.

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Le sue opere abbracciano più discipline, e questo accade anche con i libri che pubblica con la sua casa editrice, La Nave di Teseo: troviamo premi Pulitzer ma anche registi ugualmente riconosciuti, come nel caso delle biografie di Woody Allen e Oliver Stone, e Tutte le commedie di Franca Valeri. Lei ha anche curato insieme a Paolo Mereghetti una mostra di fotografie di Carlo Verdone, che aveva pubblicato quando era direttrice editoriale per Bompiani. Quali sono i suoi riferimenti cinematografici?
Sono una adepta di Fuori Orario di Enrico Ghezzi. Mio padre ha registrato centinaia di puntate e io le collezionavo, e quando non potevo vederle le rivedevo la sera successiva. Qui è passato il mio riferimento, che non è un regista, ma una idea di cinema. Quindi il mio riferimento, per essere sintetica, nel cinema, rimane Enrico Ghezzi.

Pupi Avati ha deciso di girare un film su suo padre Giuseppe Sgarbi. Come se lo aspetta e quale sarà il suo contributo?
Questo film ha avuto una gestazione lunghissima, sia in termini di scrittura che di produzione e di costruzione del cast. Cosa mi aspetto, non so. Da una parte, da figlia, non potrò che ricercare la mia storia. Dall’altra, più razionalmente, cercherò di pensare che non è la storia della mia famiglia, ma un film di Pupi Avati che ha preso spunto dai libri di mio padre, che erano già una storia parziale, mediata della vita vissuta. E sono certa che Pupi farà un grande film. Io ho potuto solo mettergli a disposizione dei particolari, degli aneddoti, delle notizie, e ovviamente la casa dove i miei genitori hanno vissuto con noi.

Come è riuscita a realizzare quest’anno la Milanesiana, il festival che dirige da 21 anni, nonostante le difficoltà dovute alla crisi?
Molta forza di volontà, una dose di coraggio e sfrontatezza. Ma anche razionalità: i dati dicevano che qualcosa sarebbe potuto ricominciare tra luglio e agosto. Era un auspicio ma anche una necessità iniziare a mettere in moto di nuovo la macchina della cultura, dei festival, dei concerti, del teatro.

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Con La Tartaruga pubblica testi femministi, riprendendo il lavoro iniziato da Laura Lepetit nel 1975. Avete pubblicato anche Io ho un nome, un titolo bellissimo per la scelta di una donna, Chanel Miller, di indirizzare una lettera al suo stupratore, Brock Turner, che l’ha abusata in un campus universitario e che per questo è stato in carcere appena tre mesi. Negli ultimi giorni si è diffusa la voce dell’invito (non confermato) che lui avrebbe ricevuto per parlare alla convention repubblicana. In ogni caso per la comunità femminista americana Turner è il tipico caso di privilegio bianco come fattore protettivo. Che potere ha un libro di questo tipo in una società come la nostra?
Quello che Lei cita è un libro importante, che ha vinto il National Book Award per l’autobiografia. Lo metterei al fianco, non per valore letterario, ma per contenuti, a Ho fatto la spia di Joyce Carol Oates. Sono due ritratti formidabili di qualcosa che si agita nella pancia degli Stati Uniti. Non so che potere abbia questo o quel libro, ma i libri sono potentissimi. Restano, testimoniano, ci sorpassano.

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