di Giuseppe Cassarà
“Sembra un film”.
Le settimane di quarantena che hanno bloccato l’Italia per la pandemia di Coronavirus sono state spesso raccontate con queste parole. Un film strano, a ben pensarci: senza attori, senza musica, solo scenografie di città vuote, strade deserte e piazze dove l’erba cominciava a crescere tra le crepe dell’asfalto. Un film dove gli attori erano chiusi nelle case e i loro drammi si consumavano in silenzio.
E di drammi ce ne sono stati tanti: mentre nel Nord Italia il virus recideva decine di migliaia di vite, in città meno colpite gli effetti della quarantena paralizzavano le attività e imprimevano segni sulla nostra psiche. Con queste ferite faremo i conti per tanti anni, e chi è più fortunato potrà raccontare la pandemia come una sospensione, una parentesi surreale.
Ma ci sono persone che mentre i privilegiati di tutta Italia decantavano i lati positivi dello stare a casa (‘leggete libri e guardate film’ consigliava chi non aveva altre preoccupazioni che l’abbonamento non rimborsabile in palestra), combattevano con difficoltà insormontabili, in ogni parte d’Italia. È l’altro lato della pandemia, quello cui non si dava risalto perché ogni giorno i morti erano davvero troppi ma che ora, in questa pausa estiva, stanno drammaticamente emergendo.
C’è chi questa tragedia nella tragedia l’ha raccontata per primo: si chiama Giancarlo Cutrona, regista catanese che quelle vite, quei drammi nascosti, ha voluto portarli sullo schermo. ‘Lockdown – le voci della città’ racconta Catania ma anche l’Italia: uno squarcio doloroso nella più grande tragedia italiana dalla fine della guerra.
Com’è stato realizzarlo davvero un film, durante il lockdown?
È stata una sfida contro il tempo, dovevamo girare in circostanze difficili, inimmaginabili. Non potevamo girare ovunque, i permessi erano difficili da ottenere. Tutto questo ha ovviamente rallentato i lavori, ma era qualcosa che dovevamo fare. Il vuoto di Catania nascondeva delle storie che dovevano essere raccontate.
Per esempio?
Ci sono varie storie nel film: abbiamo intervistato un infermiere, un autista di un autobus, dei frati. Ognuno di loro poteva portarci una testimonianza diretta, un film che noi non potevamo vedere. Storie che c’erano già in realtà, ma che il Covid ha tirato fuori a forza, rendendole ancora più tragiche. I frati, per esempio, ci hanno raccontato il dramma dei nuovi poveri, e dei modi che hanno ideato per non farli incontrare tra loro, per aiutarli a gestire l’imbarazzo del dover chiedere aiuto perché semplicemente non potevano farcela.
C’è una madre con un figlio disabile, lei è una delle persone più incattivite, e ne aveva tutte le ragioni: suo figlio ha bisogno di fare attività motoria e con il lockdown non era più possibile. Allora una mattina è uscita nel cortile per far fare gli esercizi a suo figlio e un vicino, uno di quei sceriffi da balcone che abbiamo visto in tutta Italia, le ha urlato che se non rientravano avrebbe chiamato la polizia. Il bambino è rimasto traumatizzato, credeva che sarebbero stati arrestati. Questi sono traumi che non andranno via facilmente. E sono storie valide al Sud come al Nord: abbiamo raccontato Catania perché eravamo qui durante la quarantena, ma drammi come questi sono accaduti in tutta Italia.
C’era rabbia quindi, oltre la paura, nelle persone che avete incontrato?
Certo che c’era rabbia! Ci si preoccupa dello smartworking, dei monopattini, e non di quello che la pandemia stava davvero significando per milioni di persone. C’era anche l’ansia del ritorno, per la fine della Fase 1, perché il dibattito mediatico, i litigi tra gli scienziati, le informazioni contradditorie, tutto questo ha generato insicurezza e instillato paura, paura per un cambio di società repentino. C’è confusione, e mancanza di risposte. Soprattutto, ci si chiede dove sia lo Stato. Si parlava solo di far ripartire l’economia, e non delle persone che stavano vivendo traumi profondi. Il nostro film è stato anche questo, una sorta di confessionale: abbiamo dato la possibilità alle persone di parlare, parlare fuori dai social dove le voci sono tutte uguali. Parlare è stato già un grandissimo aiuto, per tutti loro.