Barboni: «Con “Lo chiamavano Trinità” mio padre inventò un nuovo western» | Giornale dello Spettacolo
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Barboni: «Con “Lo chiamavano Trinità” mio padre inventò un nuovo western»

Nel 1970 uscì il film con Bud Spencer e Terence Hill diventato un “cult movie” mondiale. Marco Tullio Barboni, figlio del regista Enzo, ricostruisce l’incredibile atmosfera delle riprese

Barboni: «Con “Lo chiamavano Trinità” mio padre inventò un nuovo western»
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28 Aprile 2020 - 11.20


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di Giuseppe Costigliola

Alcuni film, lo sappiamo, si saldano nell’immaginario collettivo: se ne conoscono a menadito le storie, se ne ricostruiscono le scene, se ne citano le battute, con gusto e passione immutati nel tempo. Una volta si chiamavano “classici”, oggi è in voga una definizione più icastica, con un termine che attiene alla sfera religiosa: “film di culto”, o cult movie.

Bene, quest’anno ricorre il cinquantenario di una pellicola che innegabilmente appartiene a tale casta: Lo chiamavano Trinità. Il film fu girato nell’estate del 1970, e uscì nelle sale il 22 dicembre. La sua realizzazione si deve al genio e alla caparbietà del suo regista, Enzo Barboni, che lo firmò con lo pseudonimo E.B. Clucher. Era anche autore del soggetto e della sceneggiatura, fu lui a creare quei personaggi divenuti mitici, a codificare un nuovo genere, la commedia del western all’italiana. Parodie dei cruenti western nostrani – la cui produzione costella tutti gli anni Sessanta – ne giravano parecchi (con fior di attori: come non ricordare Vianello, Tognazzi, Walter Chiari?), ma Barboni adoperò le coordinate e gli stilemi del genere ribaltandone i cliché, giocando con gli stereotipi, declinandoli in chiave ironica e financo irridente, ad esempio mettendo al centro figure di antieroi e sostituendo le sanguinose sparatorie con epiche scazzottate, che diventeranno il marchio di fabbrica della fantastica coppia Pedersoli-Girotti, al secolo Bud Spencer e Terence Hill.

Barboni era un autentico animale da cinema. Formatosi da sé, conosceva a fondo ogni aspetto della settima arte. Cominciò a vent’anni, in guerra, quando fu assegnato nel Genio Cinematografisti, al termine del conflitto cominciò a farsi le ossa come assistente operatore, quindi divenne operatore di macchina, poi si distinse come direttore della fotografia. Calcò i set delle migliori produzioni italiane e internazionali della sua epoca, da Miracolo a Milano a Vacanze romane, da Spartacus a Ben Hur, film interpretati dal gotha degli attori e diretti da autentici maestri: William Wyler (che nutriva per lui profonda stima), Stanley Kubrik, Fred Zinnemann, Vittorio De Sica e numerosi altri.
Nel contempo, iniziò a scrivere sceneggiature, e dopo questa più che trentennale esperienza si cimentò nella regia, esordendo nel 1970 con un western tradizionale, Ciakmull – L’uomo della vendetta. Fu però con la seconda prova che Barboni raggiunse fama imperitura.

Lo chiamavano Trinità e il ciclo che ne seguì presentano i tratti distintivi del loro autore: la creatività di situazioni e personaggi, il sapiente uso del dialogo e la fluidità della sceneggiatura, l’abile uso della macchina da presa e l’incisività della fotografia, l’ironia, il garbo, la levità. Barboni aveva combattuto sul fronte russo, era sopravvissuto alla disfatta del nostro esercito: aveva quindi acquisito un enorme bagaglio umano di dolore, solidarietà, disincanto e la giusta dose di ironia, elementi che, uniti ad un’istintiva giocosità, in qualche modo riuscì a trasfondere nelle sue opere.
Forse sono proprio questi gli ingredienti che ne determinarono il successo, insieme alla novità della rilettura del genere western, alla simpatia e all’arte istrionica dei due protagonisti, alla professionalità e al talento del cast e dei tecnici (aspetto sul quale la critica colpevolmente spesso sorvola), all’ironia che vena sapidamente la pellicola, ai doppiatori che hanno prestato la voce a Spencer e Hill, Pino Locchi e Glauco Onorato, all’ormai leggendaria colonna sonora di Franco Micalizzi (il cui tema portante è eseguito dal fischio di Alessandro Alessandroni) che rende magistralmente lo spirito del film, e alla quale Quentin Tarantino ha reso un celebre omaggio, riproponendola nella scena finale del suo Django Unchained.

Con sorpresa del suo stesso autore e di Italo Zingarelli, il produttore che, contagiato dall’entusiasmo e dalla voglia di sperimentare di Barboni, ebbe il merito di credere in lui, Trinità riscosse un immediato successo: vicecampione d’incassi nella stagione cinematografica 1970-71, con oltre tre miliardi di lire, creò un vero e proprio brand e diede la stura a un serie di sequel. Successo imperituro, se si pensa agli innumerevoli passaggi televisivi, alle nutrite vendite quando venne distribuito in Vhs (ancora nel marzo 1992 era nella top ten delle videocassette più vendute in Italia), in Dvd (2003) e persino in Blu-ray (2013): più cult movie di così!
In questi tristi tempi di clausura, festeggiamo dunque un classico che conserva un’intatta freschezza, che rimarrà quale fulgido esempio di un’arte italica che, pur con risorse limitate, ha saputo innovare grazie alla creatività e al grande bagaglio umano dei suoi autori, uomini prima che artisti.
Abbiamo chiesto a Marco Tullio Barboni, professionista del cinema, sceneggiatore e scrittore, figlio del regista di Trinità e che fece parte del cast tecnico, di condividere con noi i suoi ricordi sul film.

Quanto durarono le riprese di Trinità? Che ricordi ne conservi?
Le riprese durarono sei settimane. Se consideri che una è stata necessaria per la scazzottata finale (che originariamente durava 12 minuti ed è stata poi ridotta per motivi di programmazione cinematografica e poi televisiva) tutto il resto è stato girato in cinque settimane: molto poche per un film pieno di esterni e di scene d’azione. Ciò è stato possibile grazie alla preparazione e alla straordinaria professionalità del cast tecnico e di quello artistico. Quanto al ricordo, posso dirti che sono state sei settimane fantastiche. Sui set dei film diretti da mio padre c’è sempre stata una bellissima atmosfera ma quella in occasione di Lo chiamavano Trinità fu irripetibile. Già dopo la prima settimana di lavorazione, i riscontri che arrivavano dalla visione dei “giornalieri” inducevano a ritenere che si stava confezionando un prodotto diverso da tutti quelli che lo avevano preceduto e questo ha dato un ulteriore impulso alla voglia di tutti di dare il meglio, con entusiasmo e (non ti sembri eccessivo) amicizia.
Tuo padre trovò non poche difficoltà a trovare un produttore per il suo progetto. Come andò?
Mio padre era un grande amante del western classico (quello de Il grande paese o di Mezzogiorno di fuoco, per intenderci. Non a caso aveva lavorato sia con Wyler che con Zinnemann) e sapeva che noi ne avevamo fatto una rilettura molto stravagante. Nell’intervista a John Carpenter che si può vedere nella mostra dedicata a Sergio Leone questo viene detto chiaramente: ci siamo inventati un west che, molto semplicemente, non è mai esistito. Sennonché sulla strada indicata da Leone con straordinario talento si è incamminata una moltitudine che ha ritenuto di distinguersi eccedendo in efferatezza. Tradotto: sempre più crudeltà e sempre più morti per autentiche carneficine che rischiavano di essere involontariamente grottesche (senza, cioè, la geniale follia dimostrata da Tarantino molti anni dopo). Mio padre pensò allora che era arrivato il momento di ribaltare completamente i cliché fasulli che erano stati creati: pistoleri spietati col cappello calato sugli occhi, sangue a fiotti, campane a morto a profusione e così via infierendo. Purtroppo tale convinzione non venne condivisa, per mesi e mesi, da nessuno dei numerosi produttori ai quali mio padre portò il suo progetto. Il commento più indulgente era “Si parla troppo e si spara poco: non fa una lira”, quello più severo te lo lascio immaginare. Italo Zingarelli dimostrò di possedere il talento imprenditoriale che ai suoi colleghi faceva difetto. Capì che il gioco valeva la candela e decise di rischiare. Ed è pleonastico ti dica che è stato premiato ben al di là di ogni più rosea aspettativa.
Enzo Barboni è stato un grande uomo di cinema, e credo che Trinità lo rappresenti sotto molti aspetti. Che uomo era fuori dal set? Cosa ti ha lasciato in eredità?
Fuori dal set era esattamente come sul set: un uomo innamorato della vita e della sua professione, senza pose e senza infingimenti, capace di non entusiasmarsi troppo quando le cose andavano bene e di non deprimersi quando non tutto girava nel senso giusto, un uomo provvisto di straordinaria ironia, accanto al quale ci si divertiva spesso e non ci si annoiava mai. Il lascito, tra i tanti, forse più importante è quello di non sacrificare le convinzioni alle convenzioni: non sta scritto da nessuna parte, mi diceva, che non si possano cambiare le regole ma prima di farlo bisogna conoscerle.
So che eri molto amico di Carlo Pedersoli, alias Bud Spencer. Che ricordi conservi di lui?
Carlo aveva molte similitudini con mio padre. Possedevano entrambi un prepotente “cuore bambino”, inteso come desiderio di sperimentare, capacità di empatizzare con il prossimo, di vivere la vita come gioco e come scoperta. E già questo mi faceva sentire su frequenze che mi erano familiari. Di lui conservo indelebile il ricordo di una leggerezza (può sembrare un ossimoro, vista la mole) che non era superficialità ma capacità di saper prendere le cose con filosofia e con un sano distacco: circostanza che si rifletteva favorevolmente sul lavoro, come in occasione delle tante riunioni di sceneggiatura, così apparentemente poco professionali, consumate com’erano tra piatti fumanti e leccornie di tutti i generi ma che nonostante questo, o forse proprio per questo, riuscivano a sfornare idee a getto continuo. Davvero una bella, bella persona Carlo Pedersoli!
Oggi sarebbe ben difficile creare un fenomeno come quello di Trinità, entrato nell’immaginario di più d’una generazione. Da addetto ai lavori, quali sono in sintesi le maggiori differenze tra il cinema di allora e quello odierno?
Il fenomeno Trinità, oltre ad aver coinvolto, come dici giustamente, più generazioni è stato anche, e soprattutto, un successo internazionale. Carlo (come anche Mario Girotti) è stato un idolo in Germania e in Spagna, in Sud America e persino in Cina: ho visto con i miei occhi i mazzi di lettere giunte dai suoi ammiratori con gli occhi a mandorla! La mia interpretazione di un simile riscontro è che il pubblico, di tutte le età e di tutte le latitudini, avvertiva di avere a che fare con un amico, ne apprezzava la spontaneità, la genuinità, capiva che da uno così non poteva aspettarsi niente di male. E questa, credimi, è una magia! Quanto alla differenza tra il cinema di quegli anni e quello di adesso, bisogna semplicemente prendere atto che le cose cambiano, non c’è un giusto e uno sbagliato. Forse allora c’era meno improvvisazione, più rispetto per la “gavetta”, più aderenza a quell’aforisma di Pasteur secondo il quale “la fortuna aiuta le menti preparate”.
Tra i tanti, ci racconti un aneddoto su quel film?
In occasione della mostra che Napoli ha dedicato al suo illustre cittadino Bud Spencer, il figlio, Giuseppe Pedersoli, mi ha chiesto di ricercare qualche foto che conservavo di quei giorni, per poterla utilizzare nella circostanza. Così ne ho ritrovata una (in bianco e nero e purtroppo un po’ mossa) che ritraeva Carlo, nel suo costume di scena, che aveva calciato un pallone nel corso della partitella che spesso veniva organizzata nell’ora di pausa sulla spianata di Camerata Nuova, dov’era stato allestito l’insediamento dei Mormoni. Ecco: quell’immagine, nella quale il protagonista scambia e contende il pallone a elettricisti e macchinisti, a stuntman e truccatori è la metafora dello spirito con il quale è stato girato quel film. Ed uno dei motivi del suo successo.

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