Trent'anni senza Aldo Fabrizi, monumento della romanità

Amato dal pubblico di tutta Italia, meno dal suo stesso ambiente dello spettacolo, a causa del cattivo carattere e dell'isolamento in cui si chiuse negli ultimi anni di vita

Trent'anni senza Aldo Fabrizi, monumento della romanità
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Giancarlo Governi Modifica articolo

2 Aprile 2020 - 16.45


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A trenta anni dalla morte è giusto e doveroso parlare di Aldo Fabrizi.

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Fabrizi è tante cose: è un grande comico, è un grande scrittore di teatro e di cinema, in cui fu anche regista e produttore. Ma è anche un monumento alla romanità. O meglio di quella plebe romana che incantò Giuseppe Gioacchino Belli, uno dei più grandi poeti della nostra letteratura.

Il Belli era uno zelante funzionario al servizio del Papa, che scriveva i suoi duemila e passa sonetti si può dire di nascosto, in una trasgressione durata tutta la vita, ma immedesimandosi nei popolani che nei suoi sonetti fa parlare in prima persona. Fabrizi è invece uno di loro: ora è il tranviere, ora è il vetturino, ora è il cameriere e così via. Tra l’altro alcuni di questi mestieri Fabrizi prima di diventare Fabrizi, lo ha fatto veramente. Veste i loro panni, quindi, per prendere in giro, per sfottere, gli altri e se stesso.

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Ma Aldo Fabrizi è anche un grande attore drammatico: il suo personaggio di don Pietro in Roma città aperta è forse quanto di meglio abbia saputo esprimere il nostro grande cinema in fatto di recitazione.

Insomma Fabrizi fu un grande attore che produsse molto ed al quale soltanto il cattivo carattere e l’incapacità di instaurare rapporti interpersonali, lo isolarono e gli preclusero la giusta considerazione del suo ambiente e dei colleghi. Ma non del pubblico, del pubblico di tutta Italia che lo amò e ancora lo ama.

Per parlare di Aldo Fabrizi che scrisse migliaia di pagine per il teatro, che interpretò una ottantina di film, per alcuni dei quali fu regista e spesso anche sceneggiatore, non può bastare l’esiguo spazio a nostra disposizione. Comunque possiamo dire che Roma città aperta, che Fabrizi, ho il sospetto, non abbia mai amato, in qualche modo gli cambiò la vita. Sì, è vero, dopo di allora negli altri trenta anni di carriera che gli rimasero, continuò a interpretare i suoi irresistibili ruoli comici, ma Don Pietro gli rimase attaccato addosso come una seconda pelle e gli aprì orizzonti di recitazione vasti e insospettabili.

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Aldo Fabrizi, con la sua opera vasta e poliedrica, occupa il posto che gli compete nella storia dello spettacolo italiano? Io risponderei subito di no: Fabrizi non è tenuto nella giusta considerazione e ciò dipende probabilmente dall’isolamento in cui visse gli ultimi venti anni della sua vita.

Negli ultimi anni, dopo la morte della moglie, Reginella, una cantante romana per la quale aveva scritto qualche canzone, viveva solo e passava il tempo nel suo grande studio in cui aveva fatto installare una cucina. Lì sperimentava i piatti della cucina popolare tradizionale e lì scriveva i suoi deliziosi libri in versi romaneschi, dai titoli significativi e invitanti: La pastasciutta, Mamma Minestra e Nonno pane. In quella cucina e in quei libri trovò il suo rifugio e forse anche un ritorno al suo mondo sparito per sempre, quello di Campo de fiori, dei bancarellari, come sua madre, e dei vetturini, come suo padre.

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