Chiara Zanini
Massoud Bakhshi, regista iraniano che ha deciso di non andare al Sundance Festival negli Stati Uniti spiega il perché del suo forfait e parla del suo Paese, di Trump, di sanzioni della guerra Iran-Iraq, del Medio Oriente e del cinema italiano al quale guardano i registi della sua terra. Bakhshi parteciperà invece al Festival di Berlino e il suo film Yalda sarà distribuito anche in Italia.
La società di produzione e quella per le vendite estere del suo film, Yalda, hanno comunicato che in ragione della sua volontà di continuare a vivere in Iran e di realizzare film lei ha deciso di non partecipare al Sundance Festival negli Stati Uniti. Sono passati alcuni giorni: può spiegare meglio la sua decisione?
È più complicato di così. Mi sarebbe piaciuto partecipare al festival perché il Sundance ha supportato me e il mio film dal 2017, quando ho partecipato al laboratorio di sceneggiatura lì. Come sa è in vigore un divieto di viaggio (Travel ban) per gli iraniani stabilito dall’attuale presidente degli Stati Uniti, quindi il festival ha faticato molto per procurarmi un visto per artisti e ho aspettato tre mesi a Parigi per ottenerlo. Ma i tragici eventi accaduti poche settimane prima del Sundance mi hanno reso impossibile andarci, visto che i miei connazionali erano molto scioccati e tristi e molte persone sono rimaste uccise nell’incidente aereo. Oltre a questo, le sanzioni statunitensi impattano sulle persone e ci sono pazienti che soffrono o muoiono a causa della mancanza di medicinali. Ho preso questa decisione per mostrare solidarietà a tutti gli iraniani e per protestare contro questi divieti disumani e le sanzioni.
Yalda racconta di una donna che deve affrontare il giudizio della società perché ha ucciso accidentalmente suo marito.
Quello che mi piace del personaggio principale del mio film, Maryam, è che non capiamo mai se è completamente innocente o colpevole. Penso che lei non sia un angelo, soprattutto perché ha accettato di sposare un uomo più vecchio di suo padre, sedotta dalla sua vita lussuosa. Ma allo stesso tempo è vittima dell’avidità di sua madre e, come lei ha detto, del giudizio preliminare e dell’errore di giudizio delle persone dopo questa morte accidentale. C’è ovviamente un mio coinvolgimento personale con questa storia, in termini di confronto con il giudizio e il pregiudizio degli altri, anche se non voglio ridurre il film solo a questo aspetto.
A Respectable Family, il suo primo lungometraggio, racconta l’Iran attraverso tre generazioni diverse. Lei era bambino durante la guerra tra Iran e Iraq, poi crescendo è diventato un critico e infine un regista. Cosa ricorda e vorrebbe condividere di quegli anni a Teheran?
Penso che gli otto anni di guerra che l’Iraq ha imposto all’Iran sotto il suo folle dittatore appoggiato dagli Stati Uniti e dall’Occidente, Saddam Hussein, abbiano cambiato radicalmente la vita della mia generazione e di milioni di persone nel Medio Oriente. Anni dopo, in Italia notai che nessun giovane italiano si ricordava o era al corrente di questa orribile guerra che tolse la vita a un milione di persone. Volevo parlare di questa guerra e del suo impatto fino ai giorni nostri.
Crede che i film siano lo specchio delle ansie della società?
Quando vivi e lavori in questa regione del mondo non c’è modo di essere risparmiato dagli effetti degli eventi politici e sociali, perché inevitabilmente interferiscono in qualsiasi cosa tu faccia. Non è un caso che la nuova ondata del cinema iraniano sia sotto l’influenza del Neorealismo italiano e delle opere di De Sica, Rossellini, Fellini e poi di maestri come i fratelli Taviani o Francesco Rosi. La rivoluzione, la guerra e la costante evoluzione della società iraniana, intrappolata tra tradizione e modernità, sono linfa per la vivacità del cinema iraniano contemporaneo.
In che modo gli artisti iraniani stanno rispondendo ai fatti recenti? Alcuni giornalisti si sono licenziati e alcuni registi e attori boicottano il Festival del cinema di Fajr. Tra le persone arrestate ci sono anche artisti. Questi eventi vi hanno unito? Siete una comunità?
Tutti sono consapevoli e preoccupati per questo. So che i recenti eventi tragici hanno fatto molto arrabbiare l’élite, che è amareggiata, ed è per questo che ha reagito in questo modo. Ma dovreste vedere questi fatti su una scala storica più ampia: penso che non sia qualcosa di nuovo, dato che abbiamo vissuto l’ultima metà del secolo con continui tumulti sociali, politici e culturali, a cui gli intellettuali e gli artisti hanno sempre reagito, in un modo o nell’altro. Penso che il risultato più importante di tutti questi movimenti siano l’arte e le opere culturali prodotte, perché gli artisti o intellettuali iraniani hanno creato le loro opere d’arte e formato il proprio pensiero come diretta conseguenza. Uno stato di incertezza condivisa fa ormai parte del nostro patrimonio genetico nell’ultimo secolo. E ne potete ritrovare le tracce nelle migliori opere d’arte di cineasti, fotografi, scrittori, poeti e artisti negli ultimi quarant’anni. Non importa se questo unisce o meno gli artisti, ma li ha sempre resi creativi.
Qual è la situazione attuale del cinema iraniano, al di là dei cineasti già consacrati i cui film sono distribuiti nei cinema europei?
Trovo che il cinema iraniano sia molto vivo e creativo. Per dire, quest’anno sono stati prodotti circa 110 film, di cui 35 opere prime o seconde. Oltre a questo, circa 300 cortometraggi e documentari vengono realizzati ogni anno nelle varie città dell’Iran. Il digitale ha rivoluzionato tutto nel cinema. Fare film è una vera e seria passione per molti giovani con background diversi. Spero che con questa diversità possa aumentare anche il livello artistico dei film, nei vari aspetti. E spero davvero che i giovani cineasti non si perdano nella realizzazione di film commerciali, o che rimangano intrappolati nell’autocensura. Il grande problema del cinema iraniano è la distribuzione, perché ci sono poche sale e teatri che sono perlopiù nelle grandi città e la maggior parte dei film minori non hanno una reale possibilità di essere visti.
Oggi anche la nostra vita privata finisce sui social network, come possiamo vedere anche in Yalda. Ma pur essendo costantemente connessi, non è facile ottenere informazioni sul Medioriente. Nel mondo occidentale il dibattito ora è molto polarizzato: si parla dei governanti e poco delle proteste. Lei ha studiato in Italia, quindi immagino ne sappia qualcosa: cosa ci consiglia di fare se vogliamo ottenere informazioni corrette su ciò che sta accadendo in Medio Oriente?
Questa è la grande contraddizione della nostra era moderna. Abbiamo le tecnologie più moderne di sempre nella Storia e tuttavia non sappiamo esattamente cosa sta succedendo in altre società o Paesi. Penso che non dovremmo fidarci dei media o dei politici, perché mentono. Dovremmo cercare di studiare e viaggiare per conoscere altre persone e culture. Altrimenti stiamo consapevolmente lasciando che i media ci facciano il lavaggio del cervello e ci manipolino. I film e documentari veramente artistici indipendenti possono fornirci una migliore e più profonda comprensione del mondo in cui viviamo.
Yalda è stato sostenuto economicamente da Torino Film Lab e sarà distribuito da Teodora Film. Verrà in Italia per presentarlo nelle sale?
Amo l’Italia e amo Torino, è una delle vere capitali del cinema. Il festival del cinema di Torino e il TFL mi hanno supportato veramente, per entrambi i miei film e dall’inizio. E ho un profondo rispetto e apprezzamento per quello che fanno per supportare i cineasti indipendenti nel mondo e auguro loro tutto il meglio, e un grande successo nel fare grandi film. Verrò in Italia con grande piacere per presentare Yalda e discuterne con il pubblico. È uno dei miei desideri e vorrei anche ringraziare Teodora Film che distribuirà Yalda.