Roberto Andò: «Con il cinema faccio politica. Le Sardine? Un segnale importante» | Giornale dello Spettacolo
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Roberto Andò: «Con il cinema faccio politica. Le Sardine? Un segnale importante»

Mentre ha “La tempesta” al Teatro Vascello di Roma, il regista parla dei suoi film, di quello mai realizzato sull’Ora di Palermo, di “Hammamet” e di censura

Roberto Andò: «Con il cinema faccio politica. Le Sardine? Un segnale importante»
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15 Gennaio 2020 - 09.56


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Alessia de Antoniis

Allievo di Leonardo Sciascia e Francesco Rosi, amico del premio Nobel Harold Pinter; ha collaborato con artisti come Federico Fellini, Michael Cimino, Francis Ford Coppola; regista di opere cinematografiche, teatrali e liriche; scrittore e sceneggiatore.
Roberto Andò è ora al teatro Vascello di Roma con un suo allestimento de La Tempesta di Shakespeare, dove resterà fino al 19 gennaio.

Giovanissimo ha avuto la fortuna di essere accolto da grandi maestri come Sciascia e Rosi. Lei dà la stessa possibilità a chi bussa alla sua porta?
Sì, ho molta considerazione di questo aspetto. Avendo avuto l’opportunità di cui lei parla, sono consapevole di come sia importante l’incontro in un momento decisivo della vita di un individuo. In genere sono molto interessato al lavoro dei giovani e a conoscere il talento altrui.

Alcune sue pellicole sono considerate politiche, nonostante non siano realiste. Com’è il suo cinema politico?
Il neorealismo è stato il momento d’oro del cinema italiano, dove affonda le radici il cinema successivo. Credo che altrettanto importante sia il cinema del romanzesco. In questo senso il mio cinema politico è un cinema del romanzesco, che non racconta ricostruzioni di periodi o personalità, come Hammamet di Amelio, che parla di Craxi, ma inventa dei personaggi che affiorano da un personaggio ipotetico.

In un’intervista a Repubblica, Bobo Craxi ha detto che il film di Amelio su suo padre è romanzato. Quale crede sia il margine di libertà consentito ad un cineasta davanti a fatti storici?
Penso che il romanzo si possa estrarre da tutto. Non è un’antitesi a quello che è realmente accaduto. È semmai un modo per suggerire delle cose che sono rimaste nascoste, che non sono evidenti o che potrebbero essere accadute. Ha quindi una legittimità. Anche Il Divo di Sorrentino è un film romanzesco: non è certamente un film all’americana, dove ricostruisci la biografia di un uomo politico. Anche Moro ricostruito da Bellocchio è romanzesco. Però sono immagini che ci restano.

Nel 2002 Luca Ronconi portò in scena le Nuvole di Aristofane e la scenografia con le immagini di Fini, Bossi e Berlusconi venne censurata. Si disse che Ronconi non poteva offendere chi lo finanziava. Fermo restando che i finanziamenti sono pubblici e non delle autorità in carica, cosa pensa del sistema dei finanziamenti a cinema e teatro? Le è mai stato consigliato di rivedere parti dei suoi lavori?
No, mai. Penso che la censura sia un fatto odioso e che sia un alibi parlare, in questi casi, di sensibilità. È una censura e basta e come tale è qualcosa di odioso da rifiutare. Istituzioni come la Rai o il Ministero dei beni culturali, che stanziano fondi per attività artistiche, hanno il compito di rispettare la libertà creativa dell’artista. A meno che non sia, per assurdo, un’opera che predica il credo di Hitler. Ecco, quello è un caso in cui la censura è legittima.

Ne “Le Confessioni”, un film basato sul rapporto tra politica, economia, etica e morale, ha dato un ruolo chiave ad un religioso. Servillo è un monaco il quale, estraneo in un ambiente di politici incapaci, muove l’azione e cambia il corso della storia. In un’era post ideologica, dove le ideologie hanno lasciato il posto alla demagogia, che ruolo dà alla cultura e al libero pensiero? Pensa che, fallita la bellezza, sarà la religione a salvare il mondo?
No, lì si partiva da un’ipotesi particolare: Servillo rappresentava un’ideale di vita francescano. Il punto di partenza era la crisi del capitalismo e dell’idea, che per alcuni anni è stata dilagante, che non ci fossero alternative al capitalismo stesso. Teorie economiche basate su quelle concezioni, oggi sono state messe in discussione a causa della recessione mondiale.
Una soluzione che suggerivo in quel caso era la possibilità di ritornare ad alcuni contenuti del pensiero francescano e credo che sia un’idea che oggi abbia un grande richiamo. Penso seriamente che nella nostra vita potremmo rinunciare a molte cose senza perdere granché. Una simile idea è sicuramente controcorrente, ma in un film tu hai la possibilità di mettere in scena anche personaggi che dicono delle cose possibili, che possono propagare delle idee, delle suggestioni. E questa è politica.

Scrisse una sceneggiatura per un film, mai girato, sul quotidiano di Palermo L’Ora. Voleva raccontare le occasioni perdute della Sicilia. Quali sono? Oggi lo realizzerebbe ancora? Era anche un progetto per parlare della libertà di stampa. Oggi la abbiamo?
Quel film mi è rimasto nel cuore perché fu un’occasione per parlare non solo della Sicilia, ma del rapporto con la stampa nel nostro Paese. Quello de L’Ora è un episodio particolarmente glorioso. Scrissi la sceneggiatura con Angelo Pasquini, ma non si poté realizzare. Abbiamo provato tante volte a recuperare quel progetto, ma per vari motivi, che non saprei neanche dire, non si è realizzato.
Era interessante intanto perché la Sicilia, da quando ha perso questa testata giornalistica, si è impoverita. Era una voce fuori dal coro e da quel momento è stato come se non ci fosse più, per la società civile, uno strumento per riflettere e per discutere anche di mafia e di rapporto tra mafia e potere.
Era poi un progetto di grande valore perché molte volte abbiamo visto la stampa in pericolo, ma non abbiamo più un’idea chiara di stampa libera. Sventoliamo questa bandiera, ma solo nel caso in cui un giornale importante viene comprato, ci rendiamo conto di quanto sia precario questo valore.
È un film che farei in qualunque momento. Mi piacerebbe tantissimo girarlo e penso che sarebbe un apporto fondante alla discussione. La libertà di stampa va tenuta sempre sotto osservazione. È chiaro che per quanto ci siano dei giornalisti liberi, i cambi di proprietà a volte modificano le cose. Ci sono casi di notizie che improvvisamente scompaiono.

Al teatro Vascello di Roma sta portando in scena La tempesta di Shakespeare. Prospero, il protagonista, è un uomo che è stato privato del suo potere temporale. In realtà ha un potere ben più grande, quello datogli dalle arti magiche che gli consentono di governare le menti delle persone. Non trova sia un messaggio attualissimo?
Sì, è un personaggio modernissimo e interessante perché è un politico. I maghi, a quel tempo, erano anche uomini di scienza e, molto spesso, esperti in quella scienza che sintetizzava tutto che era la politica. Prospero è anche un eroe del fallimento. Forse è la prima volta che viene raccontato un eroe attraverso i suoi fallimenti. Un uomo che non è riuscito a governare perché amava di più leggere. E questo è, secondo me, un messaggio davvero seducente. Tutto quello che dice sul potere, sul perdono, sulla rinuncia è molto risonante.

In “Viva la Libertà”, Servillo è un politico accusato di incapacità che scappa dai comizi, dalle pressioni della politica, dalle responsabilità. Oggi assistiamo alla negazione ad oltranza, penso a un Di Maio, a parlamentari che lasciano i partiti dimenticandosi di lasciare anche la poltrona. Meglio la fuga piuttosto che una sana assunzione di responsabilità o le dimissioni? O scusarsi con l’elettorato per aver fallito?
La fuga, nel mio film, è espressione di un disagio, come se uno avesse momentaneamente bisogno di sparire. Non è una decisione razionale. Nella fattispecie diventa poi il pretesto per la sostituzione con il gemello.
Nei casi che lei cita, siamo di fronte all’etica del politico, o alla sua mancanza, in un’epoca in cui una persona può dire un giorno una cosa e quello dopo un’altra, con disinvoltura, senza preoccuparsi di trovare una propria coerenza. Questa è un’attitudine dilagante, nonostante l’enorme quantità di registrazioni che abbiamo di ciò che un politico o chiunque altro dice, e va di pari passo col fatto che non esiste l’assunzione di responsabilità. È un dato culturale che si è verificato nel nostro Paese più che in altri. Come se le parole non avessero più un peso. E per i politici di oggi, le parole non hanno davvero più un peso.

I politici non affrontano più i comizi perché la piazza è stata sostituita dai social e dai talk show o semplicemente per il fatto che vengono eletti soggetti improbabili, con un basso livello culturale, impreparati, che partecipano alle elezioni come parteciperebbero al casting per un reality? Con il rischio però di essere eletti. E di dover lavorare per il bene di una nazione…
Tutte e due le cose. Sia il fatto che tutto si gioca sul piano della televisione e dei social, sia il fatto che c’è un arruolamento di personalità mediocri. Le piazze diventano importanti, come nel caso delle Sardine, perché c’è una generazione che non può che far conto su se stessa e che sente il bisogno di contarsi fisicamente. Allora torna il senso della piazza, dove devi essere fisicamente presente. È un segnale molto importante.

È facile dire che non ci sono i politici di una volta, ma dove è finito l’elettorato?
Le elezioni sono uno specchio di un Paese. Era così trent’anni fa come adesso. L’elettorato corrisponde alla nostra classe politica. Una parte importante dell’elettorato non c’è più e sono coloro i quali non vanno a votare. Sarebbe il caso di rimotivare queste persone e dare loro ragioni valide per tornare alle urne.

Fare cinema è il suo modo di fare politica?
Sì, penso che il cinema, come il teatro e la letteratura, siano un modo di partecipare alla società. In particolare il cinema, credo sia un atto attraverso cui collegare la fantasia alla realtà e in questo è un atto politico.

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