Come rovinai con uno sbadiglio Giulietta e Romeo di Zeffirelli

Nel 1967, quando Franco Zeffirelli mi ha scritturato, avevo 15 anni e dovevo interpretare un Montecchi. Ma quando iniziammo a girare...

Come rovinai con uno sbadiglio Giulietta e Romeo di Zeffirelli
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David Grieco Modifica articolo

18 Giugno 2019 - 10.26


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Ho conosciuto bene Franco Zeffirelli e nonostante le radicali differenze tra di noi siamo rimasti sempre amici.

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Ma non ho voluto scrivere un necrologio. Confesso che non ne posso più di veder morire tanta gente non comune che mi ha cresciuto e mi ha fatto diventare, nel bene o nel male, ciò che sono. Sto invecchiando anch’io, il cerchio si stringe, e non ci tengo a diventare l’ultimo dei Mohicani.

Il giorno in cui Zeffirelli è morto sono arrivate molte telefonate e mi hanno intervistato a lungo. Ma purtroppo sui giornali, per come vengono fatti oggi a tambur battente, è uscito soltanto un video in cui mi si vede sbadigliare in primo piano nella scena clou del film accanto al mio coetaneo inglese Leonard Whiting che interpretava Romeo.

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Un video curioso e divertente, di quelli che oggi vanno per la maggiore. Ma tutta la storia che c’è dietro è rimasta nella penna dei colleghi.

Proviamo a raccontarla. Se vi interessa, armatevi di pazienza.

Nel 1967, quando Franco Zeffirelli mi ha scritturato, avevo 15 anni e mi portò da lui Isa Bartalini, la sua aiuto regista, una donna importante e straordinaria ben al di là della sua professione cinematografica.

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Devo premettere che per motivi familiari, la mia infanzia e la mia adolescenza l’ho trascorsa in compagnia dei maggiori registi, attori e scrittori dell’epoca. Italiani, ma principalmente inglesi, francesi, americani.

Tra una chiacchiera e l’altra, tutti dicevano che avevo una faccia da cinema perfetta per diventare il nuovo Marcello Mastroianni. A me faceva ovviamente piacere, ma essendo fortunatamente provvisto di ironia e autoironia precoci, non ci credevo molto. Tutti però erano più che convinti. Persino la più grande agente italiana di quei tempi, Flavia Tolnay, che infatti mi portò nella sua prestigiosa scuderia con la convinzione di aver trovato il nuovo Ribot.

Zeffirelli mi aveva affidato una parte in quasi tutte le scene del film, con tante battute. Dovevo interpretare un Montecchi di cui William Shakespeare era del tutto ignaro, ma il mio ruolo inventato serviva a far funzionare il coraggioso, spericolato adattamento che Franco Zeffirelli aveva concepito scegliendo interpreti giovanissimi, per cercare di mettere in scena una versione di “Giulietta e Romeo” popolata di adolescenti, che dopotutto era l’intenzione originale dello stesso Shakespeare, ma non era mai stata tentata da nessuno. Molto più affidabili gli attori più che maturi che tutti i registi hanno sempre preferito, pensando alla qualità della finzione scenica e infischiandosene della verosimiglianza filologica.

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Nella prima scena che ho girato, e che si vede all’inizio del film, mi lamento ferito dopo un duello. Quando vidi la macchina da presa che si avvicinava, mi venne il panico e cominciai a fare delle smorfie inverosimili. Era una scena breve, ci vollero ore per girarla, Franco gridava come un ossesso, e alla fine si mise le mani tra i capelli perché capì che sarebbe stato impossibile farmi recitare in modo decente.

Quel giorno, per lui sono diventato una specie di pericolo pubblico sul set, un po’ come l’irresistibile Peter Sellers di “Hollywood Party”, che Blake Edwards stava realizzando a Hollywood più o meno negli stessi giorni.

Va detto che Zeffirelli aveva problemi del genere tutti i giorni con tutti noi, ad eccezione di John McEnery (fratello maggiore del più celebre Peter McEnery), più grande di noi ma già notevole professionista a teatro, che interpretava Mercuzio. Anche gli altri ragliavano quasi quanto me, perché erano tutti alle prime armi. Oltre Leonard Whiting e Olivia Hussey (persino più giovane di me), in questo gruppo c’era gente che ha poi fatto carriera in tanti modi diversi: Bruce Robinson (poi interprete della “Adele H.” di Truffaut accanto a Isabelle Adjani, ma anche regista di un piccolo film rivelazione come “Whitnail and I”), Richard Warwick (attore importante in “If” di Lindsay Anderson), Murray Head (cantautore di successo che esplose con “One Night in Bangkok”). Abbiamo vissuto e viaggiato tutti insieme per un anno, come una piccola comunità hippy, a Roma, a Gubbio, e anche a Pienza dove per combinazione più di 20 anni dopo sarei andato a vivere e a crescere i miei primi figli. Non so perché, la mia vita è tutto un reticolo di coincidenze. Ora che tutto viene a galla, tutti di stupiscono. Anche io. Ma io mi stupisco dello stupore degli altri perché questa è stata la mia vita fin da piccolo.

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Parliamo ora della scena clou del film. Il duello fra Tebaldo (Capuleti) e Mercuzio (Montecchi), che comincia come un gioco e finisce tragicamente con la morte di Mercuzio, è lo spartiacque del dramma shakespeariano.

Questa scena è la rappresentazione dei giochi pericolosi di ragazzi stupidi e viziati, che diventano improvvisamente e sanguinosamente adulti in questo modo traumatico e irreversibile. Una scena straordinariamente moderna, attuale. Più che mai di questi tempi.

La scena la girammo per 11 giorni consecutivi, per quasi 12 ore al giorno, vestiti di velluti pesanti sotto il sole d’agosto negli studi di Cinecittà dove era stata ricostruita a grandezza naturale la Piazza di Verona. Ma non ci riuscimmo. Non veniva mai bene. Franco Zeffirelli sbraitava, bestemmiava e si dimenava isterico.

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A metà dell’undicesimo giorno, Franco lanciò insulti ormai incomprensibili, salì sulla sua Mustang Azzurra che era parcheggiata accanto alla macchina da presa, e se ne andò sgommando nella polvere.

Era un giovedì. Zeffirelli sparì per tre giorni e apparentemente nessuno riuscì a trovarlo. Nella produzione si scatenò un cataclisma. Avevamo sulle spalle un ritardo di non so più quante settimane, e l’idea di non riuscire a portare a termine il film stava diventando sempre più concreta.

Zeffirelli riapparve, in silenzio, il lunedì mattina. Tornò al suo posto e ricominciammo a girare. Dopo 6 o 7 tentativi, lo udimmo di nuovo urlare a squarciagola. Ma era contento. La scena per lui era finalmente venuta bene e non voleva girarne un’altra di riserva per nessun motivo al mondo.

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Il regista salì nuovamente in macchina e se ne andò, ma di tutt’altro umore.

Proprio quando Franco sparì all’orizzonte e nella polvere, il direttore della fotografia Pasqualino De Santis -che conoscevo dall’infanzia come suo fratello Giuseppe, il regista- mi si avvicinò e mi disse sottovoce: “A Da’, senti un po’… Ti sei reso conto di cosa hai fatto, sì?”.

Io precipitai dalle nuvole: “No. Cosa ho fatto?”.

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E lui: “Ah, no? Non te ne sei reso conto?”.

Ancora io: “No, Pasqua’. Di cosa parli?”.

Ancora lui: “Non ti sei accorto di niente? Veramente? Vabbè, a questo punto manco te lo dico. Anzi, non ho visto niente nemmeno io, perché se dicevo a Franco che ancora una volta non era buona, quello finiva per ammazzare qualcuno. Tu non ci pensare e sforzati di recitare, ti mancano un paio di scene e cercherò di non inquadrarti perché non ci riesci proprio. Per fortuna, abbiamo quasi finito. Questo guaio verrà fuori dopo, saranno cazzi tuoi e ricordati bene che io non ti ho detto niente, non ne voglio sapere niente…”

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Due mesi dopo, Franco Zeffirelli mi convoca in una moviola al centro di Roma. È fuori di se’ come non lo avevo mai visto. Vorrebbe mangiarmi vivo. Mi mostra la scena e io scopro di aver sbadigliato in primo piano come un elefante nel momento chiave, quando tutti scopriamo che Mercuzio è morto davvero.

Siamo tutti imbarazzanti in quella scena che richiedeva notevolissime capacità recitative che solo John McEnery possedeva (lui disgraziamente però interpretava il morto) ma io supero me stesso e divento già, alla prima esperienza, un leggendario cane.

Si trattava di un guaio irreversibile. Nel cinema di allora, non si poteva intervenire sulle immagini in post produzione come si fa oggi con il digitale. E tutte gli altri, innumerevoli ciak che avevamo girato in tutti quei giorni erano peggiori, il più delle volte interrotti nel bel mezzo della scena.

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Qualche mese dopo, “Giulietta e Romeo” di Franco Zeffirelli venne presentato per la prima volta sullo schermo in una sfarzosissima prima londinese, al cospetto di sua Maestà la Regina. I critici dell’epoca erano tutti presenti in sala, pronti a sparare sul regista perché da straniero, da italiano, aveva osato sfidare tutta la tradizione inglese dell’interpretazione shakesperiana.

Le recensioni furono quasi tutte aspre, stizzite, negative.

Un critico di cui ora non ricordo il nome scrisse più o meno questo: Zeffirelli è stato un pazzo a scegliere di far interpretare “Romeo and Juliet” a una branco di ragazzini incapaci. Pensate che nella scena del duello, proprio quando muore Mercuzio, ce n’è uno che addirittura sbadiglia!…

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Nel mio rapporto personale con Franco Zeffirelli, questa faccenda è andata avanti praticamente tutta la vita. Ogni volta che ci incontravamo, anche in Romania nel 2002 quando stava girando “Callas Forever” e io lavoravo per Canal Plus, mi accoglieva sempre dicendo ad alta voce davanti a tutti: “Eccolo qui, l’assassino!”.

Io posso solo dire che gli ho voluto molto bene. Non riuscivo a litigare con lui. Preferivo sfotterlo almeno quanto mi sfotteva lui. E a lui faceva piacere. Forse per un buffo senso di colpa, l’ho sempre rispettato. Quando ero critico dell’Unita’, per esempio, non ho mai voluto recensire un suo film.

Cinquant’anni dopo, trovo che il suo “Giulietta e Romeo”, nonostante il mio sbadiglio e nonostante tutto, rimanga un film piuttosto straordinario nella storia del cinema. Una difficile scommessa tutto sommato vinta grazie al suo folle coraggio ancor più folle del mio sbadiglio.

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