Francesca Fradelloni
Teatrale e con vedute prospettiche. E, usando la lingua della pittura, un coraggioso recupero della realtà. Quella realtà tutta nostra che per lungo tempo è stata cronaca quotidiana. Senza farne un’inchiesta, ma partendo dall’uomo. Non un eroe. Comunque un criminale, raffinato e intelligente. E oggi ci vuole tanto coraggio intellettuale nel rispondere al richiamo dell’emergenza vera, quella di una criminalità accantonata, nascosta, innominata, sempre tenuta in vita da legami stretti con la politica. Marco Bellocchio con il suo Il Traditore in concorso a Cannes, ripesca Cosa Nostra, la rinomina, ne riaccende l’attualità di un discorso mai finito, solo silenziato dalle finte urgenze elettorali. Il film riprende il filo dall’inizio della fine del “periodo epico” ed è da ieri nelle sale distribuito da 01.
Le radici della classicità (del male)
Quella del regista I pugni in tasca è proprio un’operazione che mira al recupero delle radici storiche della classicità. La classicità del male, che è bene non dimenticare mai.
E tutto ha inizio alla Festa di Santa Rosalia. La finta pace, la guerra alle porte, vecchi precetti e nuovo sangue. Il circo di uomini d’onore che onore non hanno, in piena trasformazione, con la bava alla bocca e le bare bianche, che prima non c’erano. E poi un traditore, che dà voce alla vendetta e fa i conti con la coscienza: il boss Tommaso Buscetta, interpretato da Pierfrancesco Favino (perfetto nella fisicità, ma non credibile nel suo palermitano). Tutto intorno la sua vita, i suoi figli, la moglie (Maria Fernanda Candido), quei nomi di mafia come Pippo Calò (un eccezionale Fabrizio Ferracane), Totuccio Contorno (un magnifico Luigi Lo Cascio) e il suo rapporto con Giovanni Falcone (interpretato da Fausto Russo Alesi).
Il film racconta vent’anni di vita del “boss dei due mondi” dagli anni Ottanta alla morte a Miami nell’aprile del 2000, attraverso l’esilio brasiliano, la lotta con i Corleonesi che gli uccidono i due figli rimasti a Palermo, l’arresto in Brasile, la scelta di collaborare con la giustizia, il rapporto col magistrato Giovanni Falcone, il Maxiprocesso e infine la testimonianza-boomerang contro Andreotti.
Bellocchio: “Con Buscetta ho in comune il tradimento”
“Di Buscetta sapevo solo dai giornali, niente di più – dice Bellocchio che firma la sceneggiatura con Valia Santella, Ludovica Rampoldi e Francesco Piccolo – poi ho letto libri, incontrato persone che lo avevano conosciuto. Studiando il personaggio mi sono convinto di avere qualcosa in comune nonostante una vita privata, la mia, totalmente estranea. La cosa in comune è il tradimento”. Nel film si racconta l’ambiguità e la sofferenza di un uomo che tradisce, ma al tempo stesso resta un mafioso, resta mentalmente nel mondo in cui è nato.
“Ho iniziato a pensarci – aveva confessato in un’intervista il regista, che è tornato dietro la macchina da presa a tre anni da “Fai bei sogni” – e ho trovato la chiave del tradimento, tema per me interessante: mi ha ricordato il mio tradimento verso tutta una società, la mia educazione cattolica. Il tradimento può essere un atto vile, ma può invece rappresentare una separazione”. Un passaggio oltre il limen, la soglia, il superamento della zona d’ombra. Un racconto dell’io come luogo dinamico e rivolto al “dopo”, non senza dolore atroce.
Il film mantiene rigore e stile
Molto diverso dai ritratti televisivi della mafia. Il cinema mantiene, per fortuna, il suo linguaggio. Il rigore, lo stile, l’identità, una personale ispirazione. Ed è bello ritrovarlo ancora lì, quel cinema fatto da quella generazione di registi, una generazione che ha vinto dietro la macchina da presa. E nella vita. Con tante promesse poi mantenute, da militanti senza mai, mai, mai, barattare l’impegno con l’arte. Rarità assoluta. Marco Bellocchio ci ha restituito con vent’anni di storia d’Italia, quella della lotta di mafia tra Bontade e Riina, di stragi e tritolo. Senza sfarzo.