di Giuseppe Costigliola
Conosciamo Elisabetta Sgarbi come editore coraggioso, ideatrice e curatrice di mostre e di rassegne culturali, autrice di film e di apprezzati documentari. Abbiamo quindi assistito con non poca curiosità al suo ultimo lavoro da regista cinematografica presentato il 7 febbraio al cinema Farnese di Roma, I nomi del signor Sulčič, autoprodotto, scritto e sceneggiato insieme a Eugenio Lio.
Alla trama accenneremo appena, per non rovinare il gusto ai futuri spettatori. Una giovane ricercatrice, Ivana (che ha le sembianze della splendida Ivana Pantaleo, mirabilmente in parte come in un transfert), è sulle tracce di una donna defunta, Sara Rojc, depositaria di un segreto inconfessabile di cui ha lasciato testimonianza al vecchio custode di un cimitero ebraico (interpretato da Adalberto Maria Merli). Ivana conduce la sua misteriosa indagine per conto di una slovena, Irena Ruppel, e nel corso delle loro ricerche le due donne si ritrovano nel delta del Po, dove vengono ospitate da Gabriele, un valligiano incuriosito e attratto da quell’affascinante donna slava. Da qui comincia un viaggio reale e metaforico che, con un intreccio di vicende ed etnie, porterà i protagonisti in luoghi carichi di memoria (Trieste, Lubiana, Tolmin), attraverso le purulente pieghe d’una vicenda intima e pure storica, che dall’iniziale oscurità si dipana in un percorso di dolorosa scoperta, di accettazione di sé e dell’altro.
Dunque anche in quest’opera la Sgarbi torna sui temi del ricordo, personale e collettivo, articolando la trama sui tremendi grovigli tra la Storia e le vicissitudini umane, gli ineludibili rapporti tra un passato che sempre ritorna e un presente il cui senso è da cercare proprio nel rimosso. Lo sguardo, il registro narrativo, sono quelli cui ci ha abituato: poco “italiani” per la loro rigorosità e oggettività, scevri di fronzoli melodrammatici, privi di giudizi moraleggianti, coraggiosamente indifferenti alla vacua contemporaneità artistica del puro intrattenimento, sempre legati alla documentazione storica e alle risonanze letterarie. E caratterizzati da un’espressività intensa e meditata, resa con lunghi primi e primissimi piani, come a scavare nelle profondità dell’essere e dell’inconscio, da una struttura narrativa capace di fondere elementi onirici con un taglio quasi documentaristico, nella migliore lezione d’un Manoel de Oliveira.
Insomma, un film sulla memoria, sull’identità, sui dolorosi percorsi di crescita che ci rendono umani: una storia densa e sofferta che affonda nelle radici antropologiche dell’essere, dove il dolore appare come un destino ineluttabile, ma anche come imprescindibile forma di conoscenza di sé e della realtà, itinerario di crescita personale e civile. Non a caso, il film si apre con una visita a una sinagoga, dove giganteggia il volto iconico di Roberto Herlitzka nelle vesti di custode della memoria di un intero popolo, e con l’incontro/scontro generazionale di due tempi storici che confliggono per la loro diversità esistenziale, e che soltanto alla fine riescono a ricomporsi, con l’accettazione della verità.
A proposito di volti iconici, tutti gli attori lasciano il segno (grazie ad una scelta attenta e rigorosa del cast, merce rara nell’odierna filmografia italiana), a cominciare da una scoperta della Sgarbi, Gabriele Levada, allevatore di pesci e attore dilettante, capace con la sua presenza scenica di riempire i piani con un’intensità tanto notevole quanto spontanea; e l’altrettanto memorabile Lucka Pockaj, con la sua recitazione asciutta e incisiva, o ancora l’intrigante Elena Radonicich, Paolo Graziosi e il già citato Merli. Si fanno ricordare anche due grandi uomini di cultura che appaiono in un cameo, Claudio Magris e il compianto Giorgio Pressburger, che contribuiscono all’affascinante tonalità mitteleuropea di questo film.
Iconici sono anche i luoghi: cimiteri monumentali, sinagoghe, strade e piazze protagoniste di sanguinose vicende storiche (mirabile la scena notturna del ballo in piazza dell’Unità a Trieste, resa con suggestioni oniriche e sapienza fotografica), accompagnati da una colonna sonora sempre in tema, curata da Franco Battiato.
Abbiamo poi apprezzato l’esplicito richiamo a La prima notte di quiete di Valerio Zurlini, nelle atmosfere, nella corrispondenza di alcuni personaggi, nell’impostazione di alcune scene: oltre che di storia e di letteratura, il cinema della Sgarbi si nutre, metanarrativamente, anche di cinema.
Una menzione particolare va poi alla fotografia; coerentemente con la trama, con la recitazione, Andrès Alces Maldonado opera per sottrazione, nascondendo più che mostrando, scolorando più che rappresentando in vividi colori, in una perfetta sintesi tra forma e contenuto, come nella lunga, sostenuta scena in cui si scioglie l’intreccio, o nella prolungata sequenza dell’acqua che chiude il film, quel fiume lungo il cui alveo scorre ad infinitum una storia arcaica che percola nelle strutture profonde dell’esistenza.
Al di là di qualche incertezza iniziale, di qualche smagliatura stilistica, di una certa nebulosità nei rapporti tra i personaggi, il modo di girare della Sgarbi ci pare si stia evolvendo verso una classicità meravigliosamente fuori epoca, col suo passo narrativo lento (soprattutto se confrontato con l’isterico montaggio dei film odierni), ma provvisto di un suo ritmo interiore, correlativo oggettivo della riflessione e del ricordo, che rimanda alle suadenti cadenze iterative di un Tarkovskij, una narratività che privilegia la semantica dell’immagine rispetto a quella dei dialoghi (pochi, sapidi e dalle ampie risonanze letterarie), in cui l’introspezione drammatica si armonizza naturalmente con la trama sullo sfondo di vicende storiche evocate più che rappresentate, che proprio per questo raggiungono un’icasticità sostanziale e non solo formale.
In conclusione, nell’attuale momento storico pericolosamente privo di memoria, in un Paese come il nostro che vive in un vuoto presente senza passato né futuro, un’opera come questa assume ancor più valore e pregnanza simbolica.