Le previsioni della vigilia sono state rispettate: anche quest’anno i membri dell’Academy Awards hanno decretato con il loro voto la vittoria di quei film capaci di interrogare il nostro tempo, a partire dai temi che l’agenda contemporanea impone all’attenzione delle nostre società. Alla fine di una cerimonia decisamente meno bizzarra dell’anno scorso – i lettori ricorderanno gli errori nell’annuncio del riconoscimento più importante, poi assegnato a Moonlight – il premio Oscar al miglior film è andato a La forma dell’acqua, il fantasy politico del talentuoso regista Guillermo del Toro, già consacrato dal Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.
Premiato anche con la statuetta al miglior regista, il cineasta messicano ha saputo calare nei mondi a lui più consoni – spesso popolati da mostri o esseri fantastici – un racconto che pone al centro la paura del diverso e il coraggio di abbracciare un punto di vista differente sulla nostra realtà. Così la storia di una giovane donna delle pulizie, muta per un incidente, che in piena Guerra Fredda scopre una creatura anfibia, se ne innamora, la salva da violenti esperimenti scientifici e ne è a sua volta salvata, diventa un messaggio a voce alta a favore di quella cultura dell’accoglienza, dell’integrazione e dell’empatia che l’amministrazione Trump, con i suoi muri e le sue rivendicazioni patriottiche, ha in poco tempo già profondamente messo a dura prova. Risultato doppiamente significativo, se si tiene conto che del Toro è il terzo regista non statunitense d’origine, dopo Alfonso Cuarón (Gravity) e Alejandro González Iñárritu (Birdmen, Revenant – Redivivo), a vincere l’ambita statuetta negli ultimi cinque anni. Tutti e tre messicani, proprio come il bambino protagonista del commovente Coco, vincitore del premio al miglior film di animazione.
La vittoria de La forma dell’acqua ci offre almeno un paio di lezioni: la prima è che per raccontare la realtà e il nostro tempo non è vietato rifugiarsi tra le pieghe dei cosiddetti generi cinematografici, spesso erroneamente associati a storie di puro intrattenimento. Se il film di del Toro trasfigura in toni fiabeschi e fantastici il proprio racconto romantico, l’esordio dell’afroamericano Jordan Peele, Get Out – Scappa,premiato per la miglior sceneggiatura originale, usa gli schemi di un horror al cardiopalma per raccontare le latenti tensioni razziali statunitensi e le loro radici storiche. Il secondo aspetto chiave è che, proprio a partire da La forma dell’acqua, quest’anno è stato riconosciuto il valore politico dei nostri desideri: sì, perché spesso il coraggio di cambiare la nostra vita, magari in meglio, non parte dalla testa ma soprattutto dalle “ragioni” del cuore, dai fremiti di corpi che si nutrono di emozioni. Così accade per il giovane protagonista di Chiamami con il tuo nome, il film di Luca Guadagnino per cui tifava il pubblico italiano e che ha visto premiato, per la sceneggiatura non originale, il quasi novantenne James Ivory, da ieri sera il più anziano vincitore di un Oscar di sempre: l’amore tra il giovane Elio e il più adulto Oliver, nato e consumato nelle campagne del nord Italia di pieni anni Ottanta, non è soltanto la celebrazione della libertà sessuale che ancora molta intolleranza tende oggi a soffocare, ma un vero e proprio dizionario del desiderio come forma di conoscenza del mondo e della vita. Nelle gioie e nei dolori.
Anche la protagonista di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, interpretata da una straordinaria Francis McDormand al suo secondo premio Oscar, è dominata da un preciso desiderio: quello della verità e della giustizia. Nella provincia americana più violenta e intollerante, una donna la cui figlia è stata stuprata e barbaramente uccisa senza che sia mai stato trovato il colpevole, scuote l’indifferenza della comunità locale con un’iniezione di rabbia contagiosa, con cui saprà orientare le coscienze dei concittadini più sordi al suo dolore. Un ruolo della vita per la geniale attrice americana, che durante il suo discorso di ringraziamento ha omaggiato, senza retoriche, il movimento femminista Time’s Up, che quest’anno ha portato alla luce le sacrosante rivendicazioni delle donne nel mondo dello spettacolo, invitando tutte le candidate della serata ad alzarsi in piedi e ricevere l’applauso della folta platea del Dolby Theatre di Los Angeles. La McDormand ha poi salutato il pubblico invocando la formula dell’“inclusion rider”, una clausola nota agli addetti ai lavori che gli attori posso richiedere nei propri contratti per garantire almeno il 50% di diversità nella composizione del cast e della troupe di un film.
Un anno, lo ribadiamo, che premia la forza del coraggio, in tutte le sue possibili sfumature: la caparbietà di Winston Churchill, che grazie alla formidabile interpretazione di Gary Oldman, Oscar al miglior attore per L’ora più buia, oggi ritorna alla memoria collettiva come simbolo della lotta a ogni nazifascismo; l’audacia della redazione di The Post, il film di Steven Spielberg uscito a mani vuote ma capace di celebrare i doveri e la libertà dell’informazione e della stampa; l’ostinazione della giovane protagonista di Lady Bird,che sfida le paure e le fragilità di una vita in provincia, andando contro ai sentimenti della sua stessa famiglia, per seguire i propri sogni e le proprie ambizioni; il fascino di un amore misterioso e carico di contraddizioni, come quello raccontato dallo splendido Il filo nascosto, forse il film più bello dell’anno ma troppo cerebrale e sofisticato per raccogliere i consensi dell’Academy. In questa fitta schiera di opere americane, appare molto coerente anche il premio al miglior film straniero, assegnato a Una donna fantastica del cileno Sebastián Lelio: umanissimo ritratto di Marina, un transessuale in lutto per la perdita improvvisa dell’amato compagno, che affronta a testa alta l’inferno di tutti i pregiudizi, le accuse e le recriminazioni che la famiglia del defunto e la società tutta rivolgono a suo danno. Cercando, come tanti altri personaggi omaggiati da questi ultimi Oscar, di trovare il proprio posto nel mondo, e non vergognarsene mai. (Marco Longo)
Marco Longo – Critico cinematografico, animatore culturale, filmmaker (Genova, 1986). È caporedattore di Filmidee, trimestrale online di critica cinematografica, e collabora con il settimanale Mediacritica e il Centro Culturale San Fedele di Milano. Membro dell’associazione culturale Augenblick, con cui cura la sezione di videodanza nell’ambito di FuoriFormato – Festival internazionale di danza, videodanza e performance, a Genova