L'ora più buia che somiglia tanto alla nostra

La recensione del film di Joe Wright con Gary Oldman nel ruolo di Winston Churchill a cura di Giuseppe Costigliola

L'ora più buia che somiglia tanto alla nostra
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28 Gennaio 2018 - 20.03


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di Giuseppe Costigliola 

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Con L’ora più buia, Joe Wright conferma la sua predilezione per la regia di film ambientati nel passato, cimentandosi con un progetto ambizioso: mettere in scena i cruciali giorni del maggio 1940 che videro le dimissioni del Primo Ministro britannico Neville Chamberlain e l’ascesa al potere di Winston Churchill, il quale con un governo di larghe intese guidò la nazione nella guerra contro la Germania nazista. Il fuoco della narrazione è proprio sullo statista inglese, la cui figura è tratteggiata mediante un accorto intreccio tra la dimensione sovra-individuale degli eventi storici e quella delle vicende personali e familiari. Ne viene fuori un ritratto inedito, che oltre a mostrare la determinazione, il coraggio e l’ironia con cui egli è passato alla storia, si sofferma su quegli elementi che le ricostruzioni del personaggio di rado contemplano: i dubbi, le incertezze, le paure, i rovelli interiori che lo portarono a scelte drammatiche ma ineludibili. Lo stesso scavo psicologico, approfondito dall’uso del primo piano e da una recitazione intensa ma misurata di tutti gli interpreti, è riservato alle altre figure storiche della vicenda: Chamberlain, Halifax, il re Giorgio VI, la moglie e la segretaria di Churchill.

Tuttavia, non si sarebbe lontani dal vero nell’affermare che gli autentici protagonisti della sceneggiatura di Anthony McCarten siano lo scontro di potere politico, la sua dimensione retorica, e la correlata riflessione sul linguaggio, sulla forza persuasiva e di coinvolgimento della parola. L’agone della politica, quasi un’interiorizzazione del furore guerresco, è infatti onnipresente (a cominciare dalla prima scena ambientata nella Camera dei comuni in cui si rappresenta con tonalità livide lo scontro determinato dalla richiesta di dimissioni di Chamberlain avanzata dalle opposizioni) e attraversa tutto il racconto, con gli intrighi di potere, i retroscena, i colpi bassi tra alleati politici, i cruenti duelli verbali, i celeberrimi discorsi di Churchill indirizzati alla nazione e pronunciati in Parlamento. Non a caso il film si chiude con una riflessione di Halifax, l’aristocratico ministro sconfitto nel braccio di ferro intrapreso con Churchill sulla politica da seguire nei confronti del nemico tedesco: “Ha scatenato la lingua inglese, e l’ha mandata in battaglia”. La parola quindi come autentica arma, la più temibile per chi sappia brandirla.

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La struttura portante del racconto è spiccatamente drammaturgica, evidente già negli ambienti, con la ricostruzione del Parlamento come spazio scenico in cui ha luogo lo scontro politico, dove i deputati reagiscono ai discorsi degli oratori come spettatori del teatro elisabettiano, nelle stanze del potere e in quelle domestiche, arredate come fondali, dove traspare la passione pittorica di Wright. E teatrali sono i dialoghi, densi, concisi, ricchi di echi shakespeariani e suggestivamente radicati nella tradizione letteraria inglese, che andrebbero apprezzati nella lingua originale. Tutto ciò conferisce vigore all’elemento filmico, sapientemente giocato con una sapiente sovrapposizione di registri: il drammatico si mescola all’ironico, al sentimentale, con momenti di pura comicità, in un mirabile equilibrio che modula l’attenzione dello spettatore; o ancora con l’uso di primi piani e di improvvise variazioni di punto focale, espediente tecnico quest’ultimo volto ad evocare la duplice distanza, temporale e critica, che ci separa dagli avvenimenti messi in scena.

Tutti gli attori offrono una notevole prova: il protagonista Gary Oldman con la sua versione di un Churchill altamente umanizzato, che da un lato gioca con i cliché legati al personaggio pubblico (il sigaro, la bombetta, la pronuncia strascicata, i gesti e il linguaggio aforistico che gli sono attribuiti) e dall’altro ne coglie le fragilità, le manie, i dubbi amletici, la lotta interiore scatenata da decisioni imposte dall’imperterrito scoccare dell’ora della storia. Una performance magistrale, resa ancora più coinvolgente dal trucco prostetico che gli conferisce una ragguardevole somiglianza con l’originale: pare abbia passato al trucco più di duecento ore. Varrà la pena soffermarsi sulla straordinaria abilità degli artefici di tale impressionante metamorfosi, David Malinowsky, Lucy Sibbick, Kazuhiro Tsuji, giustamente candidati all’Oscar, la cui maestria rappresenta un’inopinata rivincita del cinema artigianale su quello della tecnologia computerizzata e degli effetti speciali. E ancora, un irriconoscibile (sempre per il trucco) Ronald Pickup che con straordinaria immedesimazione presta il volto devastato da un cancro e dalla sconfitta personale al dimissionario Chamberlain, Stephen Dillane che dà vita a una sprezzante maschera di superiorità di casta interpretando un freddo e calcolatore lord Halifax, Ben Mendelsohn che conferisce la dovuta regalità al sovrano Giorgio VI senza sacrificarne la partecipata umanità, l’intensa Kristin Scott Thomas nel ruolo della empatica e volitiva moglie di Churchill, sua coscienza critica, Lily James nei panni della segretaria dello statista, dal cui punto di vista è inizialmente approcciato il personaggio di Churchill.

La dimensione metaforica dà poi sostanza alla trama. Le tenebre evocate dal titolo trovano il loro correlativo oggettivo nei luoghi claustrofobici in cui sono ambientate gran parte delle scene, illuminate da tonalità caravaggesche: uffici interrati, cunicoli, corridoi, ascensori, che comunicano la sensazione angosciante e opprimente dei momenti terribili passati da una nazione sull’orlo della capitolazione davanti a un nemico sanguinario, e che rimandano al bunker de La caduta, film memorabile di Oliver Hirschbiegel, dove si raccontano i giorni della disfatta della parte avversa. Ma se lì si evocava la suggestione del Crepuscolo degli dei, L’ora più buia termina in una nota trionfalistica, con la retorica del never surrender, il non arrendersi a nessun costo, e con l’uscita dalle tenebre, raffigurata dalla carrellata aerea delle migliaia di barche civili che permisero il rimpatrio dei 300.000 soldati di Dunkerque.

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Ad ogni modo il film non è esente da punti deboli. Come si notava, vi è un eccesso di retorica nazionalista, come anche la facile concessione al politically correct e a un certo populismo (si veda la prolissa sequenza della metropolitana), uno strizzar d’occhi allo spettatore, in particolare con la raffigurazione di Churchill, personaggio storico controverso la cui complessità è sin troppo smussata. Ciò detto, le componenti cinematografiche – regia, sceneggiatura, cast e recitazione, fotografia, scenografia, costumi, trucco, non da ultimo il rilievo del tema – sono tutte di livello e ben armonizzate, e danno luogo ad un’opera che ha le carte in regola per farsi ricordare.

Non sfuggirà, infine, l’allusione politica che sottende la vicenda, di peculiare attualità: l’ascesa di Churchill a Primo Ministro, il ruolo chiave che ebbe nella vittoria degli alleati contro il Terzo Reich hitleriano, furono resi possibili dalla forza politica di opposizione, il Labour Party: grazie anche ad una raggiunta unità d’intenti e di programmi che seppe mobilitare le energie ed il coraggio di un intero popolo, la Gran Bretagna riuscì a tirarsi fuori dal baratro della sconfitta. Materia di riflessione anche per noi italiani?

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