Una striscia di terra su cui vivono 1 milione e 700 mila cittadini, incastrata tra Egitto e Israele e isolata dal resto del mondo. È Gaza: 42 chilometri di costa con un porto a cui le barche non attraccano più. Le nuove generazioni crescono con bassissime prospettive, siano esse occupate o in cerca di lavoro. Ma davanti a questo orizzonte, è nato anche un piccolo – ma importante – movimento: il Gaza Surf Club, i surfisti della Striscia. Sono loro i protagonisti dell’omonimo documentario (Germania, 2016) di Philip Gnadt e Mickey Yamine. “I nostri attori – spiegano i registi – sono cittadini di Gaza. Negli ultimi anni circa una quarantina di tavole da surf sono entrate in questa terra, grazie a numerosi sforzi e malgrado il rischio di forti sanzioni. Sono queste tavole che hanno regalato ai ragazzi la possibilità di respirare un po’ di libertà”.
Un uomo nel film chiama Gaza “la più grande prigione all’aperto al mondo”: prigione che, però, non ha impedito allo spirito di questi giovani di essere libero. “Gaza Surf Club” è la storia di un gruppo di irriducibili che ha trovato nel mare – “pur confine del loro carcere”, puntualizzano Gnadt e Yamine – il modo di dare un senso e una prospettiva alla loro vita. Ibrahim dovrebbe diventare un pescatore, ma sogna un visto per inseguire la sua passione alle Hawaii. Sabah ha cominciato a fare surf a 5 anni, gliel’ha insegnato suo papà. È la prima ragazza a essere entrata nel club ma, raggiunta la pubertà – oggi ha 18 anni – ha dovuto indossare l’hijab: i suoi genitori le hanno organizzato un matrimonio, dicendole di rinunciare al costume da bagno e al surf. “Finché erano piccole, lei e sua sorella, non c’era nessun problema. Ho usato tre mesi di stipendio per comprare una tavola da surf per la famiglia. Oggi entrambe sono grandi, sposate: il surf non è più un’attività consona”, spiega il padre che, bagnino e riparatore di barche, è stato surfista lui stesso fino al giorno in cui ha avuto un incidente alle gambe. Ma Sabah non si rassegna: “Vorrei tornare a quando ero piccola: solo sulla tavola da surf mi sento libera. Mi piacerebbe insegnare questo sport alle bambine”. “Tutti loro vorrebbero viaggiare e partecipare alle competizioni in Francia e alle Hawaii – continuano i registi tedeschi –, ma ottenere un permesso dalle autorità israeliane è molto difficile”.
“Gaza Surf Club” ha debuttato lo scorso settembre al Toronto International Film Festival e, dopo una serie di partecipazioni a concorsi europei, americani e asiatici – ma è stato proiettato anche in Australia, Egitto e Israele – lo scorso giugno è arrivato in Italia, a Bologna, in concorso al Biografilm. È tornato a Bologna all’interno della rassegna estiva Kilowatt Summer per presentare ufficialmente la prossima edizione del Terra di Tutti Film Festival, in calendario tra Bologna e Firenze dal 13 al 15 ottobre. L’undicesima edizione del festival organizzato da Gvc e Cospe avrà come filo conduttore “Voci dall’invisibile”, con particolare attenzione alle invisibili fra gli invisibili: le donne. Tra le novità di quest’anno, la collaborazione con il Nazra Palestine Short Film Festival, festival di corti palestinesi d’autore, presentati in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia lo scorso 8 settembre. La rassegna, itinerante, avrà una sezione speciale proprio all’interno della giornata inaugurale del festival, venerdì 13 ottobre presso la Cineteca.
Tanti, come sempre, i temi dei film in concorso: dai rifugiati al terrorismo, passando inevitabilmente dai conflitti in Medio Oriente. La vita nei campi rifugiati in Giordania, Turchia e Libano, ma anche a Calais e in Italia; la guerra in Siria (come ne “La rivoluzione confiscata” di Paul Moreira); conflitti dimenticati come quello che vede vittima il popolo Sahrawi, il conflitto endemico in Congo e quello ambientale in America Latina. Come detto, particolare attenzione sarà riservata alle voci femminili: quelle delle madri palestinesi, irachene, afghane e siriane dai campi profughi libanesi (“The Mother’ Refugees” di Dima Al Joundi); quella di Soukeina, sahrawi “desaparecido” per 12 anni in una delle carceri illegali marocchine (“Soukeina, 4400 dìas de noche” di Laura Sipan Bravo); quella di Hadijatou, venduta come schiava bambina in Niger e prima donna a fare causa al proprio paese e a vincere (“Free Hadijatou vs the State” di Lara Gomà); quelle delle volontarie che assistono i minori non accompagnati nella cosiddetta giungla di Calais.
“Da sempre ci occupiamo di Africa, America Latina, Medio Oriente, ma quest’anno non parleremo più solo dei cosiddetti ‘sud del mondo’, slogan che ci ha accompagnato per molti anni ma a cui abbiamo rinunciato. Dare spazio alle voci invisibili significa anche accogliere tanta Europa – spiegano i direttori del festival Stefania Piccinelli (Gvc) e Jonathan Ferramola (Cospe) –. Vorremmo provare a spiegare cosa sta succedendo ai nostri confini e nel nostro mare”. (Ambra Notari)