Tra i film che hanno concorso a Venezia quest’anno, l’ultimo di Keniche era sicuramente tra i più attesi.
Ma ‘Mektoub, My Love: Canto Uno’ ha lasciato il pubblico un po’ appeso. Sicuramente la confusione della giovinezza vi è chiaramente rappresentata, come era desiderio dell’autore, ma la durata del film ha lasciato perplessi: tre ore e mezza sono sembrate un ammontare di ore eccessivo per quello che il regista intendeva comunicare.
Incipit con citazione sacra, ‘Dio è la luce del mondo’ e sprazzi di Mozart (Ave Verum Corpus) e Bach (Cantate), per un film, accolto tra applausi e dissensi, ambientato in un paesino di pescatori nel Sud della Francia nell’agosto del 1994.
Protagonista Amin (Shaïn Boumedine), aspirante sceneggiatore e fotografo che vive a Parigi, in vacanza nella sua città natale. È l’occasione, per questo timido artista, di ritrovare famiglia e amici. E’ il momento di incontrate il ‘dionisiaco’ cugino Tony (Salim Kechiouche), tombeur des femmes senza remore, e la sua migliore e bellissima amica Ophélie (Ophelie Bau), di cui è chiaramente innamorato. “E’ un inno alla vita, al corpo, al nutrimento questo film” spiega Kechiche oggi al Lido dopo molte domande sul senso di questo lavoro (in sala in Italia con Vision nel 2018, RPT Vision nel 2018) diviso in tre parti.
E ancora il regista, Palma d’oro a Cannes nel 2017 con ‘La vita di Adele’: “Mektoub significa destino in arabo.
E quest’opera, nel suo insieme, pone il significato del destino perché l’amore si associa al destino, al fato”.
Ma il regista francese di origine tunisina rifiuta che nel film ci sia uno sguardo macho (molti hanno notato in Mektoub l’ossessività delle scene sul lato b): “Non è vero – dice – non c’è niente di macho nel film. Anzi descrivo donne forti, potenti e coraggiose. Al 70 per cento ho mostrato volti e solo alcuni corpi nudi”.
Per Amin una vacanza vissuta tra il ristorante tunisino dei suoi genitori, i bar e la spiaggia frequentata da tante ragazze in vacanza. Tante figure femminili, molto libere e disinvolte, e il chiacchiericcio continuo di questi ragazzi in preda a una giovinezza da vivere subito e dove sembra tutto possibile. Ma anche di scena il suo animo gentile alle prese con la nascita (da fotografare) di alcuni agnellini nella stalla di Ophelie. “L’ambientazione temporale degli anni Novanta – spiega il regista – non è legata ad alcun autobiografismo, ma nasce dal fatto che per capire il secolo in arrivo, bisogna entrare negli ultimi anni di quello precedente. Un’epoca quella in cui si viveva in modo più armonioso.
Il romanzo (il film è un’adattamento dall’opera di François Bégaudeau ‘La Blessure, la vraie’), è stata solo una fonte di ispirazione. Insomma non ho iniziato da me stesso e non mi sembra affatto di essermi raccontato”.
Infine, nei lunghissimi dialoghi del film, una naturalezza davvero sorprendente: “Molti – spiega Kechiche – sono attori che appaiono per la prima volta sullo schermo, altri no, e per ottenere quella scioltezza abbiamo solo lavorato molto tra prove, controprove e dibattiti”.