È morto all’età di 75 anni, dopo una lunga malattia che da quasi un decennio gli aveva tolto la parola, il più grande, il più geniale, il più umile, il più straordinario produttore italiano di tutti i tempi. Per me era come un fratello, a tutti voi il suo nome non suonerà familiare, ma a Los Angeles, a Pechino, a New York, a Kiev, a Tunisi o a Berlino tutti coloro che lo hanno conosciuto e hanno avuto modo di lavorare con lui proveranno ora lo stesso, identico dolore che provo io.
Si chiamava Mario Cotone.
Ora che conoscete il suo nome, vi prego di non dimenticarlo perché se esiste ancora un briciolo di giustizia nel mondo del cinema italiano ne sentirete parlare spesso negli anni che verranno e scoprirete cosa ha fatto e come lo ha fatto.
“Mario Cotone e’ un mago. Se occorre il sole, lui fa spuntare il sole. Se abbiamo bisogno della pioggia, lui riesce a far venire giù la pioggia. Non ho mai conosciuto un uomo come lui in tutta la mia carriera”, mi disse qualche anno fa il grande tycoon del cinema americano Harvey Weinstein. E nessuno ha mai udito Harvey Weinstein spendere parole lusinghiere nei confronti di un collega.
Mario Cotone ha saputo trasformare in realtà film a dir poco difficili da realizzare come “C’era una volta in America”, “L’ultimo imperatore”, “La vita è bella”, “Pinocchio”, “Malena”, “Baaria” ed “Evilenko”. Più le cose sembravano impossibili, più si esaltava. Poi, al momento degli Oscar e degli applausi, Mario si eclissava puntualmente con uno dei suoi sguardi sornioni, identici a quelli di Walter Matthau.
Sergio Leone, Bernardo Bertolucci, Roberto Benigni, Giuseppe Tornatore gli devono molto, moltissimo. Per non parlare del sottoscritto, che più semplicemente gli deve tutto.
Le mie lacrime saranno aneddoti, perché Mario Cotone non si può descrivere, si può solo raccontare.
C’era una volta in America di Sergio Leone
Sergio Leone chiede a Mario Cotone 200 comparse cinesi per la fumeria d’oppio costruita nel Teatro 5 di Cinecittà. Mario fa incetta di cinesi nei ristoranti cinesi di Roma e glieli mette tutti in fila sul piazzale di Cinecittà. Sergio Leone gli dà un’occhiata e sentenzia: “E che, so’ cinesi questi?”. Mario obietta: “So’ cinesi, so’ cinesi Sergio, nun li vedi?”. Sergio lo stronca: “Nun so’ cinesi, Mario. Questi so’ camerieri. Dopodomani voglio 200 cinesi veri, capito?”. Poche ore dopo, Mario Cotone sale sul treno Palatino e va a Parigi. In giro per Parigi, senza conoscere il francese, Mario adesca e cattura 200 cinesi veri promettendo loro chissà cosa, li fa salire tutti sul treno e li porta a Roma. Quarantotto ore dopo, eccoli schierati nel piazzale di Cinecittà. Sergio Leone li passa in rassegna come farebbe un generale e finalmente approva: “Questi sì, so’ cinesi veri. Ce voleva tanto?…”
A New York, Sergio Leone vuole girare una scena del film su uno dei ponti più importanti. Chiedere il permesso alle autorità non è neppure pensabile. Ma Sergio Leone vuole girare su quel ponte e nessuno glielo toglie dalla testa. Mario Cotone e il produttore americano del film, Fred Caruso, decidono di mettersi a bordo di due auto, provenienti dalle due sponde opposte del fiume, e di improvvisare un bell’incidente frontale proprio in mezzo al ponte. Mentre il traffico si paralizza in tutta New York, Sergio Leone riesce comodamente a girare la scena che voleva.
L’Ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci ha un budget irrisorio ed è il primo regista occidentale a voler girare un film interamente in Cina. Vuole girare anche nella Città Proibita, dove nessun europeo ha mai messo piede. I soldi per ricostruirla non ci sono. Ma c’è quella vera. E Mario Cotone riesce prima ad accedervi, poi a trasferire tutta la troupe all’interno per girare il film.
Bernardo Bertolucci vorrebbe anche dei cammelli. Ma dove li trovi dei cammelli in Cina? Mario Cotone prova a farli venire in nave. Gli garantiscono che morirebbero tutti di mal di mare. E allora Mario decide di farli venire a piedi, dal Libano, spostando la scena dei cammelli alla fine delle riprese del film e facendoli arrivare puntuali il giorno stabilito come un orologio svizzero.
La vita è bella di Roberto Benigni
Roberto Benigni realizza “La vita è bella” a spese sue perché nessun produttore importante (Cecchi Gori e De Laurentiis) vuole finanziare un film sull’Olocausto dove Benigni alla fine muore. Mario Cotone porta Benigni a fare il film a Papigno, in provincia di Terni, in una vecchia fabbrica di Carburo di Calcio abbandonata da anni. Mario trova a Papigno tutto ciò che occorre al film, persino la ferrovia sulla quale Benigni farà arrivare il treno nel finale.
Il Mio West di Giovanni Veronesi
Giovanni Veronesi gira in Val d’Aosta un western strano assai, con Leonardo Pieraccioni, Harvey Keitel e David Bowie. Mario Cotone non ama la commedia all’italiana, tantomeno quella un po’ esotica, ma ama il cinema. Nel copione si parla di indiani pellerossa, e a qualcuno vengono in mente gli Squallor di “Arrapaho”. Ma per Mario Cotone gli “indiani” sono solo quelli veri. Mario riesce a convincere un’intera tribù di nativi americani e li porta in Val d’Aosta con tutti i loro accessori originali, a cominciare da quelle loro tende che si chiamano “tepee”. Alla fine del film, quando tutti smobilitano e chi si è visto si è visto, Mario porta tutti i pellerossa in vacanza premio a Venezia per ringraziarli di aver partecipato al film.
Niente lacrime, abbiamo detto. E allora chiudiamo con una battuta, una delle leggendarie battute di Mario Cotone. Quando si girava “Baaria” di Giuseppe Tornatore nei pressi di Tunisi, dove è stata costruita la più grande scenografia di tutti i tempi (vale a dire la città di Bagheria su scala reale, e per giunta in tre epoche diverse) il coproduttore tunisino, il “magnate” Tarak Ben Ammar grande amico e sodale di Berlusconi, arrivava spesso sul set all’ora di pausa e invitava a pranzo Mario, Tornatore, attori e capi reparto. Ma quando al ristorante arrivava il conto, Tarak Ben Ammar si era come volatilizzato. La terza o quarta volta che Tarak arrivò sul set all’ora di pausa, Mario gli disse subito a bruciapelo: “Non mi invitare a pranzo, Tarak. Oggi non ho una lira”.
Te possino ammazzatte, Mario. Oggi mi hai fatto un male tremendo.