Ricorderemo sempre Paolo Villaggio, perché ci ha raccontato tante più cose dell’Italia profonda, di quanto siano riusciti a fare libri e saggi di antropologia. E sì, le maschere di Fantozzi e di Fracchia sono eterne e colgono perfettamente la miscela tragico-grottesca di cui si compone lo spirito del “suddito” vessato con la strizzata d’occhio alle tecniche opportunistiche di sopravvivenza. Tipi e volti memorabili, al confine tra la comicità surreale e il dramma sociale. Il rango che si deve all’autore genovese è quello stesso di Totò. O di Peppino Di Filippo o, pure, di Jerry Lewis. Tant’è che giustamente fu scelto da Federico Fellini ne “La voce della luna” insieme a Roberto Benigni, interpretazione che gli valse il David di Donatello. Ricevette anche il Leone d’Oro alla carriera a Venezia nel 1992 e il Pardo d’onore a Locarno nel 2000, oltre ad un Nastro d’argento nel 1994. Lo scelsero Giorgio Strehler a teatro con “L’avaro” di Molière; o Ermanno Olmi, Pupi Avati, Lino Del Fra, Nanni Loy, Lina Wertmuller, Mario Monicelli per film un po’ lontani dai suoi pezzi forti: questi ultimi non meno colti, bensì diversamente impegnati. Infatti, la cinematografia che ha segnato la vicenda professionale ed estetica di Villaggio –con Luciano Salce, Sergio Corbucci, Neri Parenti- è stata a suo modo di qualità. Una sorta di iperrealismo, in grado di farci vedere il carattere dispotico del potere o il tratto cechoviano della burocrazia, di fronte ai quali il cittadino è costretto –per difendersi, per non rischiare, per accettare plasticamente l’oppressione- a prostrarsi fino a costruire una personale corazza a suon di umiliazioni. E poi, la mediocrità accondiscende ai riti della cultura di massa piccolo-borghese: dalle feste con i colleghi furbi e cattivi, alle improbabili scappatelle amorose ingenerose verso Milena Vukotic moglie paziente, alle terribili vacanze in montagna con tanto di battute di caccia, al rito delle partite di calcio. Fino alla scena cult della “Corazzata Potemkin”, che in verità la celeberrima battuta attacca per colpire una certa “critica” ufficiale élitaria e insofferente verso i fenomeni pop. Ma il cinema non avrebbe avuto forza senza una lunga incubazione di sintassi scenica -oltre alla parentesi musicale con Fabrizio De André- nel grande cabaret milanese, nella radio e nella televisione. Proprio qui, negli indimenticabili appuntamenti di “Quelli della domenica”, di “Canzonissima”, di “Gran varietà”, Fracchia e Fantozzi assursero alla soglia di vera commedia dell’arte, toccando livelli espressivi degni del Pantheon della comicità, dove potrebbero stringere la mano degnamente all’ispettore Clouseau di Peter Sellers.
Fu giornalista e scrittore, ad esempio su “L’Europeo”, “Paese sera”, “L’Indipendente”, “L’Unità”.
Tuttavia, c’è un dato da sottolineare, al di là delle esperienze politiche dirette che Paolo Villaggio fece con il Partito comunista, con Democrazia proletaria o con i radicali, fino alla recente simpatia per il “Movimento 5 Stelle”. L’intera navigazione dell’attore -brillante e profondo- è stata intrisa di politica. Persino prefigurante: il Jobs Act, la cancellazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, le strette disciplinari incombevano nei sottotesti delle commedie agrodolci. Così come si preparava la lunga stagione delle disillusioni, del rifiuto, dello sconforto, del divario tra chi conta e chi no. Tra i fortunati d’ufficio e gli sfigati per destino o per censo.
Insomma, rendiamo merito non ad un comico, ma ad un mirabile cantore della sofferenza moderna.