Superati i cinquant’anni, Giovanni Veronesi non ha più voglia di dire e dirsi bugie. E questa scelta istintiva se l’è portata anche nel suo mondo cinematografico. Il frutto di questa nuova fase creativa è “Non è un Paese per giovani” (in sala dal 23 marzo), «una commedia, ma anche un film molto tosto, violento, che dice la verità».
«Non ho più voglia di mentire, di strizzare l’occhio» ci confida il regista toscano prima di andare in diretta su Radio2. «Il mio modo di essere regista è diventato più sincero anche verso me stesso, non solo verso lo spettatore. Volevo fare un film da potere difendere sempre e comunque, niente di commissionato o di scritto a tavolino».
Il film nasce dall’omonima trasmissione radiofonica che conduce ormai da anni. Quanto ha influito questa esperienza sulla scrittura del film?
«La radio mi ha immerso nella realtà più vera, quotidiana, la realtà dei fatti oltre quella che raccontano le pagine dei giornali e oggi leggo anche quelle che prima non mi interessavano, per seguire l’attualità e poterne dibattere con cognizione. È stato un bagno di verità che mi ha fatto uscire dalla mia condizione di privilegiato».
Il tema è quello della fuga dei giovani italiani all’estero in cerca di opportunità, un argomento che le sta molto a cuore.
«In questo momento storico è il problema più grave. Ogni giorno in trasmissione sento ragazzi italiani dall’estero e mi sono fatto l’idea che non se ne vanno perché vogliono, ma perché l’Italia li espelle come ernie. Parliamo di centoventimila ragazzi l’anno e i politici non se ne occupano. Secondo i sociologi tra dieci anni verrà a mancare un’intera generazione all’Italia, quella dei trentenni, un buco molto serio. Stiamo regalando l’energia vitale dei nostri giovani ad altri Paesi che li considerano risorse, e non pesi come fa l’Italia».
Come ha tradotto tutto questo nel film?
«Con la storia di due ragazzi che vanno a Cuba in cerca di fortuna, uno ce la fa e l’altro no. Il monito del film però non è rivolto ai ragazzi ma ai genitori, perché esperienze come queste così lontano da casa e senza alcuna protezione possono essere anche pericolose. A vent’anni possono provocare solitudini che a loro volta possono scatenare reazioni incoscienti».
Nel film ci sono anche i colori di Cuba e soprattutto ci sono Sara Serraiocco, Filippo Scicchitano, Giovanni Anzaldo.
«Erano i volti giusti per dare ai personaggi il peso che volevo raccontare. Purtroppo lo star system non trova spazio su giornali e in tv per gli attori che non siano già celebrità, ma non sono le star a portare la gente al cinema. Ci vorrebbe più coraggio anche in questo, dando spazio a sguardi e sorrisi che dicano qualcosa di nuovo. Sara, Filippo e Giovanni sono la vittoria del film, hanno creato un’empatia straordinaria con il pubblico, non solo coetaneo».
Qual è stato il loro impatto con Cuba?
«Arrivati a Cuba non sapevano bene dov’erano. Conoscevano la storia e il mito ma non ne capivano il senso vero. Si è creato con loro un rapporto che sarà difficile spezzare, anche per l’esperienza fortissima che abbiamo condiviso con il luogo. Questo sarà l’ultimo film nella Cuba di Castro, quella del pueblo, povera e più vera, che tra dieci anni non ci sarà più».
Tra un “Manuale d’amore” e l’altro, uno dei suoi titoli più riusciti è “Che ne sarà di noi”. Cosa potrebbe rendere l’Italia un Paese per giovani?
«L’Italia è un Paese in grande difficoltà etica e filosofica. Viviamo un periodo mediatico che surclassa tutto in nome dell’audience, persino nella politica. Negli ultimi trent’anni si è fatto scempio della cultura e dell’arte e si è inseguito il progresso puntando sulla formazione tecnico-scientifica. Bisognerebbe ricominciare dai ginnasi e dai licei introducendo materie che insegnino un’identità italiana più forte, non come nazionalismo o forma, ma come coscienza delle nostre eccellenze artistiche. Vorrei una scuola che instillasse l’arte nell’anima adolescente, perché è in quella fase che si crea la cultura vera, in grado di formare una mente davvero aperta».
Il cinema, dal canto suo, cosa può fare?
«Può mettere in evidenza le grandi ferite dell’epoca e fare venire a galla le ferite della società. Noi registi abbiamo il dovere di mettere in evidenza questa società spaccata, ognuno come può. Io ho sempre cercato di farlo ridendoci su, ma stavolta meno perché i ragazzi sono una cosa importante e bisogna parlarne seriamente. C’è un momento per tutto e quello dei nostri giovani è un argomento su cui adesso è meglio non ridere troppo».