torno dopo tanto tempo su questa pagina per provare a raccontarvi come è andata al Festival di Mosca.
Premi non ne abbiamo vinti. Ma in fondo lo sapevamo. Eravamo in concorso ma era come se non lo fossimo. Era stato previsto da tempo il nostro ritorno tassativo a Roma 36 ore prima della premiazione. Questo la diceva lunga sulle nostre effettive possibilità di ottenere premi.
I Festival del cinema sono ormai diventati dei piccoli summit politici, e i verdetti delle giurie ne rispecchiano le strategie. Quest’anno, “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi ha vinto una Berlinale tutta dedicata al tema dei migranti dopo l’apertura improvvisa della Merkel ai profughi siriani e “I, Daniel Blake” di Ken Loach ha ottenuto la Palma d’Oro al culmine di un Festival di Cannes costantemente attraversato dalle proteste dei sindacalisti francesi per il Job’s Act. Dico questo senza nulla togliere, ovviamente, alla qualità dei film di Rosi e di Loach.
Al Festival di Mosca ha trionfato un film iraniano, che ha conquistato il Grand Prix e il premio per il Migliore Attore attribuito a un ragazzo di 14 anni. Sarà senz’altro un capolavoro, ma la logica geopolitica appare abbastanza evidente.
Detto questo, il Festival di Mosca ci ha tributato un consenso che non potevamo nemmeno sognare. Era la prima volta che “La Macchinazione” veniva proiettato all’estero. Il timore che il pubblico non potesse capire un film che racconta una storia estremamente complessa parlando una lingua sconosciuta e superata (un dialetto romanesco ormai desueto) era più che fondato.
Quando siamo arrivati a Mosca il 24 giugno, Ranieri ed io siamo rimasti letteralmente folgorati. Per lui era addirittura la prima volta, mentre io mancavo da Mosca da una decina d’anni.
Nel viaggio in auto dall’aeroporto a Novy Arbat, abbiamo attraversato una città maestosa, modernissima, pulitissima, vivissima e piena di giovani. Massimo non credeva ai suoi occhi. Ma io che la conoscevo bene ero forse ancora più sorpreso di lui. Siamo andati a cena in un quartiere zeppo di locali dove si suona musica dal vivo. Siamo entrati in un ristorante dove si esibiva una grande orchestra jazz, molto giovane ma degna di Count Basie.
Abbiamo presto scoperto che ci si può collegare a Internet dappertutto, senza bisogno di password. Minuto per minuto, in Russia centinaia di migliaia di persone entrano in rete senza credenziali. Una cosa mai vista. Mosca pullula di giovani e sono tutti connessi. Ma è molto raro vederne uno che cammina con gli occhi incollati al display e le cuffie nelle orecchie. A quanto pare, preferiscono parlare, ascoltare musica, ballare, leggere un libro.
L’indomani, Massimo Ranieri voleva andare sulla Piazza Rossa e visitare il Cremlino. Ci abbiamo provato, ma abbiamo dovuto desistere. Non potevamo fare un passo senza venir assaliti in egual misura da turisti italiani e cittadini russi. Tutti volevano autografi e selfie. Da Massimo Ranieri, naturalmente.
La sera del 25, dopo la proiezione per la stampa, abbiamo incontrato una folla di giornalisti. Sembravano emotivamente molto colpiti dalla visione del film. E durante lo svolgimento della conferenza stampa ci siamo resi conto che avevano profondamente capito, anzi per meglio dire vissuto, la tragedia pasoliniana. Per dimostrarlo senza possibili equivoci, l’interprete russa è scoppiata a piangere mentre mi traduceva e di conseguenza ho dovuto continuare a parlare in inglese.
Il 26, la proiezione pubblica era in programma alle tre e mezzo del pomeriggio in una sala da 1500 posti. Fuori c’erano 34 gradi, che per via del tasso di umidità sembravano 60. Lungo i 300 metri che separavano l’albergo dal cinema, Massimo Ranieri ed io abbiamo arrancato a fatica, chiedendoci quali e quanti spettatori avrebbero trovato il coraggio di uscire di casa a quell’ora e con quella temperatura per andare a vedere un film come il nostro.
Quando siamo entrati in sala, non si vedeva un posto vuoto. In fondo alla sala c’era anche gente in piedi. Alla fine del film, è esploso un grande applauso. Alcuni spettatori hanno cominciato a gridare “Grand Prix! Grand Prix! Grand Prix!…” Molti sono venuti ad abbracciarci e a tempestarci di domande. Gli abbracci, le domande, le interviste hanno avuto termine solo ventiquattro ore dopo, quando siamo saliti in macchina per tornare all’aeroporto.
Mi dicono che ci sono già alcuni distributori interessati a far uscire il film in Russia ed editori che vorrebbero pubblicare il libro.
Eppure, per quarant’anni la storia di Pasolini è stata la storia di “un frocio che la morte se l’era andata a cercare”.
Eppure, i russi sono notoriamente tra i più omofobi al mondo dal momento che le due grandi Chiese, quella Comunista e quella Ortodossa, hanno sempre avversato l’omosessualità.
Eppure, tanti giovani russi sembrano apertamente omosessuali, non fanno niente per nasconderlo, e nelle strade di Mosca nessuno li importuna.
Cos’è che tiene insieme tutto ciò? La cultura. Unico antidoto per scongiurare questa sensazione di catastrofe incombente che oggi grava sul mondo intero. I russi erano e sono, oggi più che mai, un popolo incredibilmente compatto e profondamente innamorato della cultura. Il consumismo qui sembra essersi definitivamente spento. E i tanti monumenti dedicati ai poeti, agli scrittori e ai musicisti sono ancora al loro posto, pieni di fiori, mete di pellegrinaggi quotidiani.
Pier Paolo Pasolini avrebbe molto apprezzato questo breve viaggio a Mosca. Anzi, penso che ci avrebbe lasciati partire e sarebbe rimasto lì.
Un abbraccio a tutti voi