di Jon Schwarz
Non posso certo dire che questa sia una recensione neutrale di Where to Invade Next, l’ultimo film di Michael Moore. Tralasciando il fatto che ho lavorato con Moore per sei anni, quindi anche durante il precedente documentario Capitalism: A Love Story, ammetto che devo letteralmente la vita all’eccellente assicurazione sanitaria, non deducibile che Michael fornisce ai suoi dipendenti.
Ciò che posso avere perso in obiettività l’ho però guadagnato nella profonda conoscenza della sua carriera. Conosco infatti, persino il suo più oscuro e celato segreto: il vero nome della pubblicazione alternativa che fondò negli anni 70, a Flint, Michigan.
Posso perciò affermare senza timore di essere smentito che Where to Invade Next è la cosa più profondamente sovversiva che Moore abbia mai fatto. E’ talmente elusivo che si potrebbe addirittura non capire esattamente cosa stia sovvertendo.
In apparenza, Where to Invade Next sembra un allegro diario di viaggio: Moore infatti ama le lunghe vacanze durante le quali, “invade” un sacco di nazioni europee e la Tunisia per carpire le idee migliori e portarle in America.
Per esempio: le scuole pubbliche in Francia hanno degli chef che servono, su piatti di porcellana, dei lunghi pranzi multiportata: tra cui scaloppine in salsa al curry. Non ho mai riso tanto al cinema quest’anno come quando il bambino francese di 8 anni guardava orripilato e perplesso le foto dei pranzi serviti nelle scuole americane.
Il film è così positivo e in una maniera così diversa dal solito Moore che lui stesso stava per chiamarlo Mike’s Happy Movie. Sicuramente è stata l’unica volta che dopo avere visto uno dei suoi documentari, sono uscito dal cinema pensando: Accidenti ma è tutto fantastico! Ciò che però mi ha spinto a questa esclamazione è il messaggio sotteso a Where to Invade Next – e se andrete a vederlo anche voi vi sentirete così.
Il peggiore avversario di Moore.
Per capire di cosa sto parlando è necessario ripensare ai film più importanti del regista e notare quanto sostiene con gli anni sia diventato sempre più ambizioso, nel senso che con ogni film ha alzato la posta; ha alzato la posta puntando ad istituzioni sempre più importanti ridicolizzandone la pretesa affidabilità, controllo e serietà.
Vediamo la progressione: Roger & Me, 1989, un attacco alla General Motors ai tempi in cui era ancora la più grande corporation del pianeta. Sosteneva che la decisione di GM di brutalizzare i suoi impiegati, gli acquirenti e la città di fondazione non fosse esattamente la migliore strategia a lungo termine. (E le cose, come s’è poi visto, stavano proprio così.)
Bowling for Columbine, 2002, il bersaglio era ancora più ambizioso della GM: non trattava solo dei costanti, ripetuti massacri in America ma della cultura della paura che tutto permea, rendendoci refrattari e ostili a qualsiasi possibile soluzione.
Fahrenheit 9/11, 2004, se possibile puntava ancora più in alto: affermava infatti che il presidente degli Stati Uniti fosse non solo illegittimo, ma che non avesse la più pallida idea di ciò che stava facendo mentre tutti erano terrorizzati anche solo all’idea di dirlo pubblicamente.
Sicko, 2007, una critica spassionata a qualcosa di persino più importante della Presidenza degli Stati Uniti: il sistema sanitario, l’industria più grande e più crudele d’America.
Capitalism: A Love Story, 2009, Moore raggiunge, pare, l’apice della carriera, mostrandoci che l’intero sistema finanziario mondiale è al collasso.
Cos’altro avrebbe potuto aggiungere? Una volta demolito niente meno che il capitalismo, è difficile anche solo immaginare una nemesi più potente. Ma, con Where to Invade Next, Moore dimostra il contrario.
La vera ideologia Americana A metà circa del film Moore visita in Norvegia, un’isola/prigione che ospita detenuti condannati per aver commesso dei crimini violenti, ma premiatei per buona condotta. Un po’ meno del paese di Oz e un po’ più di un modesto resort; i prigionieri sono vestiti normalmente, girano in bicicletta, vanno a pesca e prendono il sole.
Nella cucina del carcere, Moore parla con Trond, che è stato condannato per omicidio e porta un enorme tatuaggio sul viso; con lo sguardo fisso alle spalle di Trond, Moore dice: “Oh! Noto che dietro di te ci sono un sacco di coltelli molto affilati”, ce n’è infatti circa una dozzina compresa un’enorme mannaia.
A quanto pare poi non ci sono sorveglianti; Trond spiega quante guardie sono di turno alla prigione durante i fine settimana: quattro, a fronte di una popolazione carceraria di 115. Inoltre, racconta, le guardie stanno normalmente in un altro edificio lasciando ai prigionieri la responsabilità di sorvegliarsi tra loro.
Per qualsiasi americano, me compreso, questa è pura pazzia! Ma, dice il guardiano della prigione, seduto su una panca nel parco con gli uccellini che cinguettano in sottofondo: “Non capisco perché la troviate un’idea così astrusa… la cosa fondamentale è privare queste persone della loro libertà, è l’unica punizione che viene inflitta loro. Stiamo cercando infatti di aiutarli a reinserirsi nella società civile.”
La strategia norvegese mira a creare un ambiente normale con meno controlli esterni possibile, in modo che quando i prigionieri usciranno, saranno capaci di autocontrollo. La cosa funziona così bene che la Norvegia ha tra i tassi d’omicidio più bassi del mondo; il tasso di recidiva poi è circa del 20%: due, tre volte più basso che negli USA.
(In seguito Moore visita anche una prigione di massima sicurezza, che sì, è meno simile a un centro benessere, ma assolutamente libera dalla brutalità e dall’annichilimento spirituale che sono tipici delle prigioni USA.)
Anche la sezione dedicata al Portogallo verte sul sistema carcerario, o meglio sulla mancanza di uno che possa essere paragonato a quello americano, e questo grazie alla completa depenalizzazione delle droghe avvenuta nel 2001. Il Dottor Nuno Capaz, il ministro della sanità, ammette di essere un consumatore “soprattutto d’alcool, internet, molto caffè, un po’ di zucchero.” Quando Moore sottolinea che l’abuso di droga può portare per esempio, molta tristezza all’interno di un matrimonio Capaz risponde, “E quindi? Facebook ha gli stessi effetti. Lo vietiamo?” Queste politiche, esattamente come quelle norvegesi, hanno dato risultati del tutto incomprensibili e controintuitivi per gli americani: ora che non si è più perseguibili per il consumo di sostanze stupefacenti, il loro utilizzo sta diminuendo.
Alla fine di Where to Invade Next – dopo aver visto certi lavoratori italiani con due mesi di ferie retribuite, le scuole finlandesi che non assegnano compiti a casa ma con i migliori risultati al mondo, gli sloveni che vanno all’università gratis e le donne tunisine e islandesi che ottengono una libertà e un potere senza precedenti – capirete che tutto il film riguarda lo smantellamento delle prigioni in cui vivono gli Americani: scuole e posti di lavoro come prigioni, la prigionia dei debiti contratti per frequentare i college, la prigionia dei ruoli sociali cui sono confinate le donne e, non ultima, la prigione mentale costituita dal rifiuto di affrontare la propria storia.
Capirete anche alla fine, quali siano le motivazioni che stanno alla base di queste prigioni, ovvero il cuore dell’ideologia statunitense che non è il capitalismo, né l’Eccezionalismo Americano, ma qualcosa di ancora più profondo: il postulato che le persone sono cattive. Sono talmente cattive che devono essere costantemente controllate e sotto minaccia di punizione perché se per un momento fossero libere uscirebbero di testa e distruggerebbero ogni cosa.
Il messaggio fondamentale che permea Where to Invade Next è che l’America non ha capito niente degli esseri umani. Tu ed io non siamo cattivi. Le persone che ci vivono accanto non sono cattive. È normale, persino ok, sballarsi o ammalarsi, ed è normale per i teenager trascorrere ogni momento pensando a come rimediare una scopata.
E se ognuno avesse il controllo delle proprie vite lo userebbe in maniera responsabile, non raderebbe il paese al suolo in un sabba di dissolutezza.
Where to Invade Next risulta ancora più potente perché non grida queste cose ma semplicemente… ce le mostra. Non si tratta di speculazioni su come la natura umana sarà trasformata dopo una rivoluzione che ci porterà a condividere la nostra razione di zuppa d’erba con il resto del mondo. Sta già succedendo e sta succedendo tra persone che sono imperfette esattamente come noi.
Il film termina con Moore che visita ciò che resta del muro di Berlino e ricorda di essere stato presente nel 1989, di averlo picconato insieme ai tedeschi. È cresciuto infatti durante la guerra fredda e in quel periodo l’unica cosa certa era che: “questo muro non sarà mai abbattuto. E’ stato costruito per durare per sempre. Impenetrabile.” Ma meno di 30 anni dopo il muro non c’è più. Ciò che il Presidente dei Documentari americani ci dice è: “Buttiamo giù questi muri. Staremo molto meglio senza di essi”.
Fonte: theintercept.com.
Traduzione per Megachip a cura di Marybob Shapiro.