A testa alta: la tenacia dei giudici minorili nel film di Emmanuelle Bercot

Emmanuelle Bercot riabilita con questa pellicola le istituzioni che ruotano intorno ai ragazzi difficili: 'Il film nasce dall’esperienza di mio zio, assistente sociale'.

A testa alta: la tenacia dei giudici minorili nel film di Emmanuelle Bercot
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17 Novembre 2015 - 15.36


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Si potrebbe definire un film sulla “ostinazione riabilitativa e rieducativa”, sulla tenacia di quelle figure “istituzionali, normalmente rappresentate come fallimentari, se non dannose, che ruotano intorno ai cosiddetti “minori problematici”: giudici, educatori e assistenti sociali. Il film “A testa alta”, di Emmanuelle Bercot (produzione Les films du Kiosque, distribuzione Officine Ubu), la pellicola francese che ha aperto l’ultima edizione del festival di Cannes e che il 19 uscirà nelle sale, supera il luogo comune e offre un ritratto insolito di queste istituzioni: ciascuno fa il proprio lavoro con devozione, lasciando che il proprio compito nei confronti di Malony, il tipico “delinquente”, passi attraverso la fatica, la paura, la frustrazione, il rischio di sbagliare. “Non so più cosa fare” è una frase che ritorna, pronunciata ora dall’educatore di turno, ora dalla stessa giudice, ma non è rassegnazione: piuttosto, è il continuo interrogarsi su ciò che si sta facendo e domandarsi se non ci siano strade migliori.

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Malony mette alla prova tutti gli adulti che lo circondano: la madre, giovane e incosciente tanto da sembrare sua coetanea, incapace di occuparsi di lui in maniera costante e matura, ma non per questo inadatta a creare col figlio un rapporto di affetto, per quanto fuori dagli schemi; la giudice, interpretata da Catherine Deneuve, donna “tutta d’un pezzo”, capace di prendere decisioni difficili, ma anche di lasciarsi coinvolgere profondamente dal destino di Malony; gli educatori e l’assistente sociale anche, almeno una volta, “non sanno più che fare”, ma continuano a provare. Fin quando Malony, che non sa gestire la sua aggressività e passa da un centro riabilitativo all’altro, trascorrendo diversi periodi anche in carcere, finalmente potrà uscire “a testa alta” dagli uffici del giudici, portando in braccio il figlio appena nato: un giovane padre 17enne, con una storia piena di inciampi, che cammina sicuro, attento a non compiere passi falsi. Non più “sotto protezione”, ma improvvisamente capace di proteggere una creatura più indifesa di lui. Forse un lieto fine, certamente un finale aperto: resta la fiducia, maturata in due ore di storia, che anche i “casi”più difficili possano essere “riabilitati”: purché non siano lasciati soli, ma seguiti con competenza, professionalità e dedizione. E’ questa “ostinazione educativa”, forse, il contributo del film alla Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia, che si celebrerà il 20 novembre: non è un caso che film esca nelle sale proprio in occasione di questa ricorrenza.

“La mia idea iniziale era realizzare un film sul sistema di sostegno che ruota intorno ai bambini – spiega la regista – Sono stati gli anni di ricerca che ho condotto prima di iniziare le riprese che mi hanno permesso di capire quanto questi operatori fossero motivati, di conoscere la loro abnegazione, pazienza e capacità di non mollare mai”. Ed è proprio la storia di un assistente sociale, zio della regista, a suggerirle l’idea del film: “Da bambina ero andata a trovarlo in Bretagna – racconta Bercot – dove era responsabile di un campo estivo per giovani ‘delinquenti’. Uno di loro era un bambino. Da ragazza di buona famiglia, sempre protetta e incoraggiata, ero affascinata dal comportamento di questi adolescenti che non avevano avuto la mia stessa fortuna, ero attratta dalla loro insolenza, dal loro atteggiamento ribelle nei confronti dell’autorità e delle convenzioni sociali. Allo stesso tempo ammiravo il lavoro di mio zio e degli altri assistenti sociali per rimetterli in carreggiata, educarli, insegnar loro ad amare se stessi e gli altri, portare rispettare ai propri simili, ma soprattutto a se stessi. Il ricordo è rimasto in me così presente che da adolescente volevo diventare un giudice minorile. Invece, ho fatto questo film”.

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Un film documentato, perché si arricchisce dello studio del tema ma soprattutto delle osservazioni sul campo: “Ho passato del tempo con mio zio – riferisce la regista – e gli ho chiesto di parlarmi della sua esperienza. Mi ha fatto conoscere altri assistenti sociali e un giudice minorile di Valence. Ho avuto l’opportunità di osservare le udienze, ho trascorso del tempo in un centro di detenzione minorile, e ho letto un’enorme quantità di libri e guardato ogni film o documentario trovassi sull’argomento, prendendo molti appunti. Questo approccio iniziale era molto sconvolgente e terrificante. La sceneggiatura inizia con questa epigrafe: ‘Tutti i bambini hanno diritto a un’educazione. Questa dovrebbe essere gestita dalla famiglia, e se la famiglia è carente, allora la società ha il dovere di intervenire’: questa frase, che ho letto in un libro scritto da un giudice, è il tema del film. È un compito essenziale, vitale. Come si può salvare una società se non attraverso l’educazione, nella più ampia concezione del termine? La giustizia minorile poggia sull’idea che nulla sia del tutto scolpito nella pietra per un bambino e che attraverso i programmi educativi e di sostegno, la discesa senza fine possa essere fermata. Com’è possibile mettere in pratica tutto ciò, senza arrendersi – perché i risultati, se arrivano, ci mettono molto tempo ad essere raggiunti? Questo è il senso del film”. Anche il finale, tutt’altro che un “happy end” fiabesco, si fonda su un dato di fatto: “Mi hanno detto gli assistenti sociali che, nel 95% dei casi, innamorarsi è lo stimolo che spinge i giovani a farcela. Questi ragazzi non hanno stima di se stessi. Hanno problemi ad amare e a farsi amare: è dura per loro, ma quando capita, salva la vita”. (cl)

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