Sono un inguaribile ottimista e vedo, per quanto riguarda la condizione dell’industria cinematografica italiana, il bicchiere mezzo pieno. Il nostro cinema vive su due binari: la commedia, che ottiene risultati straordinari al box office, e un cinema d’autore che, pur essendo apprezzato e di qualità, fatica ad essere visto dal nostro pubblico e fatica ancora di più ad essere esportato all’estero.
Il bicchiere mezzo pieno sta proprio in mezzo a questa dualità, nella forbice che si crea tra cinema d’autore e cinema d’intrattenimento. Colmare questo vuoto è difficile, ma possibile e potrebbe aprire nuovi scenari, adesso inimmaginabili. Al momento deficitiamo proprio in quest’area di mezzo, in questa terra di nessuno, ovvero nel cinema che dovrebbe essere venduto all’estero. Mi spiego meglio: parlo della mancanza di un cinema di genere, che noi italiani non pratichiamo più da tanti anni: da quanto tempo non facciamo più film di guerra, d’azione, di fantascienza? Un tempo c’era chi credeva con coraggio in questa terza via, che oggi è stata completamente abbandonata.
Non c’è più tempo da perdere: le condizioni del nostro mercato non consento più dilazioni, bisogna trovare nuovi modi, nuovi linguaggi, nuovi generi e, perché no, anche nuovi autori. È ben radicato nella nostra cultura un cinema commerciale, che è anchilosato su alcuni nomi di registi e attori, senza i quali non si può mettere insieme nessun tipo di progetto. Il cinema, che vuole superare i limiti delle frontiere, dovrebbe proporre un’offerta competitiva, ricca, di qualità. Faccio un altro esempio: sono più di 30 anni che i nostri eserciti sono impegnati in missione di pace nel mondo e nessun gli ha mai dato voce. Il cinema americano immediatamente, non appena nasce un nuovo conflitto, realizza dei film, come “The Hurt Locker”, che vincono l’Oscar, pur rimanendo sperimentali, autoriali, indipendenti e distanti dai budget illimitati di Hollywood.
La speranza e l’ottimismo si possono avere, soprattutto se si guarda al positivo aumento di produzioni, registrato anche grazie alle nuove tecnologie, che hanno rivitalizzato il settore delle produzione cinematografica: in Italia solo nella scorsa stagione hanno debuttato una cinquantina di opere prime; film che hanno il merito di muovere quel tessuto statico dell’industria italiana, proponendo qualcosa di originale.
Riuscire a coniugare intrattenimento e qualità, avrebbe benefici sia il mercato interno, dove manca questo tipo di offerta, sia quello estero: è un nuovo territorio che aspetta solo di essere invaso. Noi italiani, in effetti, non ci stiamo più raccontando o ci raccontiamo in un modo che non può andare oltre le nostre sale. Pensiamo per un attimo ai film che hanno vinto l’Oscar: lo hanno ottenuto attraverso uno sguardo su un’Italia che non esiste più, un’Italia del passato: “Nuovo cinema paradiso”, “Il postino”, “Mediterraneo”, “La vita è bella” e anche “La Grande Bellezza”.
Il mondo ha piacere a vedere il nostro ritratto, ma sembra che non accetti, o forse non siamo in grado di proporgli, come siamo diventati. Esistono dei tentativi per internazionalizzare la nostra industria cinematografica: si nota negli sforzi dei produttori, delle distribuzioni, degli autori. C’è ancora troppo da fare, per ritrovare un punto di equilibrio. Abbiamo dalla nostra parte la grandissima tradizione del cinema italiano: un film come “La Ciociara”, ad esempio, non divideva tra autoriale e commerciale, ma era una pellicola che univa. Il grande cinema è trasversale, unisce tutti e questo dovrebbe essere un altro obiettivo da perseguire per poter pensare di ottenere risultati importanti nei box office stranieri.
In Italia siamo in ritardo sotto molti punti di vista. Quello che forse si registra è una mancanza generale di coraggio e di desiderio di rischiare e di mettersi in gioco. Non che l’Italia sia un paese che favorisca questo tipo di operazioni. Il prodotto cinematografico, quando va bene, ormai si risolve nel giro di tre week end, già è raro raggiungere la quarta settimana di programmazione. A fronte di un lavoro enorme che dura anni, il tempo di consumo del prodotto è talmente rapido, veloce che aumenta il rischio d’impresa. Forse la politica potrebbe aiutare chi investe e chi lavora in questo settore, così come tutto il mondo della cultura.