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Pubblicità, Tv senza vergogna

Procede l’iter della nuova direttiva comunitaria in materia di fornitura di servizi di media audiovisi, e nessuno se ne sta occupando

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Vincenzo Vita Modifica articolo

31 Maggio 2017 - 22.05


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Nel disinteresse generale in Europa si sta attuando un vero e proprio colpo di mano. E’ in stadio avanzato, infatti, l’iter della nuova direttiva comunitaria in materia di “fornitura di servizi di media audiovisivi” (Avms), volta ad aggiornare quella del 2010 (2010/13/Ue), ma persino più delicata essendo ormai compiuta la transizione all’ambiente digitale. Ora, dopo la proposta iniziale del “governo” di Bruxelles e la lettura in seno alla commissione cultura cui non ha lesinato qualche critica Silvia Costa, è in corso il negoziato con il consiglio: prima del varo definitivo che richiede una vera e propria triangolazione. La procedura di conciliazione. E’ al lavoro l’apposito comitato parlamentare (Cult), che ha ipotizzato un compromesso. Pessimo. Infatti, mentre gli incombenti Over The Top (da Google, a Facebook, ad Amazon, ad Apple) vengono appena sfiorati dalla regolamentazione, il vecchio e prepotente mondo televisivo vede cancellate quelle poche norme che pure hanno evitato il peggio del peggio. La gloriosa direttiva-madre -la 552 del 1989- è ormai messa in soffitta. Era l’epoca della “diversità culturale” trainata dall’allora ministro francese Jack Lang e della straordinaria mobilitazione degli autori contro le interruzioni selvagge dei film. Poi il declino liberista. Mentre gli antichi broadcaster ingrassavano a scapito dei giornali e delle emittenti locali, si appalesavano non previsti i giganti della rete, veri e propri aggregatori di dati e di contenuti. Le culture giuridiche non si sono realmente aggiornate e la prova provata è proprio la presunzione di mettere tutto e tutti insieme, in un’unica direttiva. Con il risultato di fare il solletico agli oligarchi digitali e di eliminare persino l’ultimo ancoraggio di una legislazione antitrust: i limiti di affollamento pubblicitario. Finora si sono tenute in vita due percentuali, il 20% sulla programmazione giornaliera e il 18% sull’ora di trasmissione. Vecchia contesa degli anni d’oro della televisione e della stessa pubblicità –gli ottanta/novanta-. Allora l’accaparramento di spot e telepromozioni era lo strumento per dominare il settore. Oggi, più amaramente, è un volgare riflesso di autodifesa, per fare baldoria l’ultima notte, come in una festa di addio del celibato. Il giorno dopo arriveranno i predatori tecnologici e i principi del “Mediaevo” saranno inghiottiti dai protagonisti del millennio. La sola Apple ha più solvibilità di Regno Unito e Canada messi insieme, per dire. Si dà la possibilità ai singoli Stati di introdurre il 20% nelle principali fasce orarie, ma campa cavallo. In pieno “Patto del Nazareno”, è ben difficile immaginare che l’Italia faccia la prima della classe. Ed è anche vero che la presidenza maltese, di turno, sta tentando di alleggerire la tensione. Ma è improbabile che lo sforzo abbia successo. Servirebbe un’iniziativa forte di numerosi parlamentari europei, pronti a farne una lotta concreta, la condizione preliminare per incidere poi sul riassetto futuro del sistema.
L’importante direttiva “Tv senza frontiere” del 1989 segnò una stagione, con la promozione e la difesa delle opere europee, oltre ai vincoli sull’advertisement. Il nuovo articolato smantella gli ultimi baluardi e non dà garanzie né al cinema né all’audiovisivo né alla creatività digitale. Blando e rischioso. Debole e fuori tempo.
P.S. Martedì 23 maggio è apparsa (finalmente) in Gazzetta Ufficiale la Convenzione Stato-Rai. Si scrive nel testo che il legale rappresentante dell’azienda è “…..”. Senza carica, senza nome. Strano, no? Campo Dall’Orto si sarebbe dimesso il venerdì successivo. Il governo, nel consegnare le bozze alla Gazzetta, già sapeva? Dietristi e complottardi scatenate la vostra furia (intellettuale).

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